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30/07/2008

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UN “UTILE” REMAKE

Clicca per Ingrandire ROMA (6 agosto) - E’ il 24 luglio 2007, sono alcuni giorni che le temperature sono altissime, dall’altro ieri numerosi sono stati i focolai che hanno interessato quasi tutti i comuni del Parco nazionale del Gargano. Verso le 8.30 del mattino prende fuoco un oliveto, uno dei tanti piccoli focolai che si potrebbe spegnere subito e facilmente, ci provano due della protezione incendi ma non ci riescono, le forze dell’ordine controllano.

Le fiamme, alimentate da un libeccio caldissimo che spira dalla sera prima, salgono sul crinale verso nord est, raggiungono un deposito di bombole, alcune esplodendo finiscono sopra alcune tombe del cimitero di Peschici che prende anch’esso fuoco. Lingue di fuoco e pezzi di cenere attraversano la strada che da Peschici va a Vieste, l’incendio imbocca l’unica strada che scende verso la baia San Nicola, siamo in trappola.

Sono le 9.45 e le fiamme sono ormai alte, si vedono dal campeggio dove mi trovo con la mia famiglia. Poi verrò a sapere che il presidente del parco del Gargano lancia il 1° allarme alle 10 senza però costringere i velivoli antincendio a partire. Passa una mezz’ora e gli altoparlanti dicono di stare tranquilli, sono stati avvertiti i vigili del fuoco, è tutto sotto controllo. In lontananza si sentono gli scoppi delle bombole, ci dicono che sono le esplosioni che si usano per fermare gli incendi. Con un amico che con la famiglia mi è venuto a trovare proprio oggi andiamo alla mia roulotte che è sistemata tra gli alberi, prendiamo quanto più possiamo di importante e lo carichiamo nelle nostre auto per poi andarle a parcheggiare in un'altra zona del campeggio dove non ci sono alberi, ci sembra un posto sicuro e il fuoco verrà fermato prima, pensiamo.

Gli scoppi di bombole si fanno sempre più vicini e il fumo ora è esteso e scuro, sono le 11.15, decidiamo di andare dalla parte opposta del fuoco sulla spiaggia, verso est, con noi abbiamo solo i sandali, il costume, i documenti, il telefonino e l’asciugamano per proteggerci dalla cenere che gia cade e dal fumo ormai acre. Come noi centinaia e centinaia di vacanzieri. Chi ha un natante fugge via mare, gridando che tornerà a riprenderci. Un’altissima fiammata che si alza sull’ultima cresta di alberi per poi abbattersi col suo calore nella parte alta del campeggio ci fa affrettare il passo e ci fa aver vera paura per la prima volta oggi. Si forma una strana turbolenza di vento che porta via ogni cosa leggera, materassini, salvagente, giocattoli, ombrelloni, uno viene portato altissimo nel cielo creando un’ulteriore paura.

Oltrepassiamo, camminando tutti in fila nell’acqua alta un metro e mezzo, uno sperone di roccia che ci separa dalla piccola baia più ad est, la Zaiana (nella foto, mentre sta per essere "ingoiata dal fumo dell'incendio; ndr). Molti sono aggrappati a salvagente, materassini e qualsiasi altra cosa galleggi, io sostengo la moglie del mio amico che non sa nuotare, mentre lui sostiene ed accompagna il figlio undicenne, Angelo, non vedente e plurihandicap. Giungiamo a riva instradati da un bagnino che ci indica dove l’acqua non è troppo alta, il fumo è sempre più fastidioso, altre bombole scoppiano dietro noi, e il fuoco continua ad inseguirci.

Alla Zaiana vedo un mio amico tedesco con la sua famiglia (la moglie e la nuora sono terrorizzate) che tira fuori dall’acqua un vecchietto, campeggiatore come noi, che, pure lui terrorizzato, vuole andar via a nuoto, penso l’abbia salvato. Il tedesco lo rivedrò domani a Vico dove l’hanno sistemato egregiamente, con altri stranieri, in un albergo.

Ormai sono le 12 e dobbiamo salire l’alto costone che chiude a sud, come un’ostrica la perla, questa bellissima spiaggia invasa ormai da un fumo intenso e pungente. L’erta di scalini scavati nella roccia è tortuosa e faticosa con le ciabatte fradice, tutti in fila indiana, con le urla impaurite di chi sta in basso e il crepitio degli alberi che ardono e adesso si sente bene. Col mio amico ci diamo il cambio per portare a spalla il figlio che pesa quasi 40 kg., arriviamo su esausti, con la gola secca e col cuore che ci batte in testa. Troviamo una jeep di stranieri su cui facciamo salire Angelo con la mamma che saranno portati in salvo a Vieste, vedo per la prima volta il mio amico rilassato, anch’io lo sono ora.

E’ solo un momento, guardiamo dietro: una stupenda costruzione tutta bianca annidata sull’alto costone che prima abbiamo oltrepassato in un attimo viene avvolta dalle fiamme che ora vediamo spaventose ed imponenti, la preoccupazione ci riprende, mio figlio quattordicenne è molto impaurito e cerca sempre di farci rimanere uniti tra quel gregge urlante, lo sgrido di stare calmo, sono le 12 e un quarto. Riprendiamo a fuggire l’incendio verso est scendendo verso la spiaggia di Manacore, è la prima volta che ci vado da 17 anni che campeggio qui.

Una ragazza urla terrorizzata battendo per terra i piedi nudi cotti dal calore, i conoscenti la fanno calmare, lei scoppia a piangere. Alcune persone si nascondono dentro una cavità che sta sotto il costone che stiamo scendendo, moltissime altre invece, migliaia di persone, si accalcano dove la spiaggia finisce limitata da un altro costone di roccia. Ci dicono che oltre c’è una piccola baia impervia e lussureggiante, pochi vanno oltre, noi e moltissimi altri ci fermiamo, infilarci in un bosco non è una buona idea anche se il fuoco non è proprio vicino, qui la spiaggia è molto larga.

Telefono al 115 che mi dice di aver le tre squadre attive al lavoro, mi consigliano di chiamare la guardia costiera, 1530, spiego loro: ”Migliaia di persone che respirano a fatica sono accalcate alla fine della spiaggia di Manacore”, vogliono sapere di nuovo la località, “Manacore” gli urlo “dal mare dovete venire a prenderci, non c’è altra via di fuga. Affrettatevi, ci sono migliaia di persone, affrettatevi”, mi dicono che faranno al più presto. Sono più tranquillo e rassicuro chi mi è vicino, adesso verranno a prenderci.

Sento per la prima volta anche il rumore di un velivolo tra il fumo, poi verrò a sapere che sicuramente era un elicottero, i Canadair oggi sono tutti in manutenzione, geniale. Penso sia l’una del pomeriggio, più di quattro ore fa il focolaio all’oliveto si sarebbe potuto spegnere con qualche secchio d’acqua, ora l’elicottero non so quanto tempo ci metterà. Ci sono alcune imbarcazioni ancorate vicino la riva, il bagnino mi dice che ha fatto appello ai proprietari con gli altoparlanti perché le utilizzassero per portare le persone in salvo, ma nessuno si è fatto vedere.

Non scorgiamo aiuti né dal mare né dal cielo, passa troppo tempo e non si vede nessuno, il bagnino ci dice di aver saputo che il fuoco è stato delimitato e di stare tranquilli, i soccorsi stanno per arrivare. Passa ancora del tempo e si rivede il fuoco avvicinarsi, ora c’è anche del fumo a est, dalla parte opposta. Non sono più tranquillo. Finalmente arriva una prima imbarcazione, il bagnino ha chiamato il padre. Facciamo salire più persone possibile, con difficoltà per il mare mosso e con la gente che si accalca dove l’acqua è sempre più alta, e poi c’è poco carburante per il rientro, prendiamo una tanica dalle barche ancorate, e parte il primo viaggio.

Pian piano ne vengono altre, poche, tutte di privati, il fuoco incalza e si respira a fatica, mia moglie mi dice sottovoce di aver difficoltà a respirare, mio figlio è impaurito e chiede alla madre se ce la faremo. Riesco a far montare i miei sulla sesta-settima barca sopraggiunta e dopo aver faticato non poco, tiro su anche mia figlia impacciata, il gommone nel frattempo si è avvicinato agli scogli dove l’acqua è profonda e il mare agitato, lascio l’appiglio laterale che afferravo e vado giù, bevo, torno su, nuoto qualche metro e prendo un’onda piena in faccia, ribevo e rivado giù, rinuoto qualche altro metro, annaspando chiedo aiuto ad un signore che era immerso fino al collo, lui fa due passi e mi allunga una mano tirandomi verso sé, è sicuramente più alto di me, tocco a malapena, cammino verso la spiaggia dove è il mio amico a cui avevo affidato l’unico telefono, dei quattro, rimastoci.

Lo trovo seduto a terra con l’asciugamano bagnato girato sopra a mo’ di tenda per respirare meglio, prendo il mio asciugamano e mi siedo vicino a lui, dei brividi mi prendono la schiena, gli stessi che ho ora che sto scrivendo. Chiedo dell’acqua da bere ad un signore che è lì vicino, mi dà la sua mezza bottiglia, vicino c’è una doccia con la quale mi tolgo il sale che mi si sta asciugando addosso, e forse cerco di togliermi i brividi per lo spavento di prima, più in là ancora ci sono dei bungalow con tanti bambini che urlano e mamme che non sanno che fare, dico loro di avvicinarsi ai gommoni che sopraggiungono e di salire sopra, una mi dice che la figlia non sa nuotare, rassicuro la bambina e la prendo in spalla, e la madre per la mano, rientro in mare.

Da riva ai gommoni saranno trenta-quaranta metri, di più non riescono ad avvicinarsi per il mare mosso e perché le persone avanzano sempre per essere le prime a salire, alcuni (troppi) presi dal panico montano prima dei bambini e delle donne. Carico la bambina e aiuto la madre a salire, quando si allontanano la piccola mi fa un piccolo sorriso, torno a riva. Telefoniamo alla moglie del mio amico che sta bene e a mia figlia che mi dice di essere al porto di Peschici. Ora i gommoni fanno la spola caricando a riva e scaricando a largo su grosse imbarcazioni che finalmente vedo.

Ripartiamo in acqua, c’è da aiutare la gente a salire sui gommoni. Per far salire una donna anziana e pesante perdo il telefono. In una situazione normale mi sarei incavolato, ora qui così combinati ne sono stato quasi felice, senza il problema del telefono che non mi dava completa libertà di movimento in acqua potrò, col mio amico, aiutare meglio le persone. E così è stato, nel mare mosso, stanchi, col fumo sempre più insopportabile, le urla e il terrore sulla faccia di tante persone, quell’aiutare chi si sente vicino alla morte ci ha fatto sentire più vivi.

In mare vedo un motoscafo blu, forse dei carabinieri. Alla fine sulla spiaggia sono rimaste una cinquantina di persone e le barche sono molte, col mio amico saliamo su un gommone, i nostri asciugamani bagnati intorno al collo, esausti. Ammucchiati al massimo, per partire recupero su la corda con l’ancora e la poggio sui cuscini del gommone, il proprietario mi rimbrotta di metterla dentro l’apposita cavità, che porta male navigare con l’ancora fuori, ci mancherebbe altro, obbedisco e si parte.

A largo ci sono molte barche, di tutte le misure, saliamo su una grande imbarcazione per la raccolta delle cozze, chiedo l’ora al comandante che mi dice viene da Rodi, sono le 15.40, aspettiamo altri quattro gommoni di disperati, si respira male anche qui a un chilometro dalla riva, beviamo l’acqua in bottiglia dei pescatori. Controlliamo che a terra non ci sia più nessuno, il comandante se ne assicura accuratamente con il suo binocolo, voglio assicurarmene anch’io ma non riesco ad inquadrare bene, comunque chiediamo di portarci a Peschici dove ci sono i nostri congiunti, lui fa per partire poi tentenna aspettando ordini, che finora dice non ha avuto da nessuno, da un motoscafo della guardia costiera che ora finalmente vedo.

L’uomo in divisa e mascherina bianca, che comanda altri 3-4 che armeggiano con mascherina bianca tra corde e galleggianti e il pilota del motoscafo con mascherina bianca, vorrebbe salire a bordo ma i militari, forse per il mare mosso, dopo aver fatto un giro intorno alla nostra imbarcazione non riescono ad accostarsi tra la derisione dei pescatori, e alfine vanno via, e noi pure, destinazione Peschici.

Mi vengono in mente quelle carrette del mare pieni di disperati a cui le imbarcazioni dei nostri militari cercano di avvicinarsi, poverini. C’è il mare mosso che ci fa bagnare tutti più di prima ma è un sollievo, un signore sui sessant’anni seduto tra gli attrezzi da pesca, appoggiato al parapetto non si ripara come gli altri dietro la cabina di comando, stordito o consapevole, sicuramente esausto, si lascia frustare da quei flutti, tra un’ondata e un'altra ci sorride, qualcuno ride, io avrei voglia di farlo.

Arriviamo nel porto di Peschici pieno di persone, di urla, di vociare, di smarrimento, di confusione, di abbracci e pianti. Ululano delle ambulanze. Appena oltre il molo un elicottero col tubo sta caricando acqua nel mare, uno più piccolo col sacco pieno, già è lontano, l’incendio ancora infiamma. Attracchiamo e una mano si allunga verso la mia, è Matteo, un ragazzo che lavora al bar del campeggio, ci abbracciamo disperati, mi dice di aver visto mia moglie e i ragazzi sani e salvi, mi dà dell’acqua come quando gliela chiedevo al bar per il gran caldo. Verrò a sapere che al campeggio ha aiutato tantissima gente a salvarsi, che è stato grande.

La settimana scorsa parlavo con lui delle difficoltà di chi qui non ha un lavoro fisso ed è costretto a lavorare in estate per campare anche le altre tre stagioni, gli avevo detto che avrei cercato di aiutarlo, ora vorrei regalargli il mio lavoro comunale. Non sono certi che al campeggio siano tutti salvi, alcuni discutono animosamente con quel loro dialetto che sembra un canto, poi appena arriva un gommone aiutano gli occupanti a salire e veloci in tre si buttano dentro e partono per San Nicola assieme allo scafista e un altro rimasto a bordo.

Siamo scalzi sull’asfalto bollente, solo con asciugamani e costume, ma c’è acqua per tutti, beviamo e ci bagniamo, al mio amico una ragazza mette due buste ai piedi, poco dopo un ragazzo vicino al porto mi regala le ciabatte che indossa, mi prende un groppo alla gola, avrei voluto baciarlo. Col mio amico chiediamo a un carabiniere di farci fare una telefonata, sentiamo i nostri cari e verso le 17 ci ricongiungiamo tutti e sette a casa di amici a Vico del Gargano.

La sera stessa sappiamo che si può andare al campeggio e col mio amico ci facciamo accompagnare subito: lo spettacolo a cui assistiamo è indescrivibile. Dove quella mattina era divertimento, gioia e spensieratezza, dove lui era venuto per passare una piacevole giornata e far divertire il figlio che ama l’acqua, ora è distruzione. La parte del campeggio dove chi come noi ha pensato di portare in salvo l’auto è come un luogo bombardato col napalm, tutto bruciato, con le colature dei cerchi in lega fusi che scivolano, ora solidificate, sulla sabbia come orecchini di carcasse affumicate, uniche cose lucenti di tutta la zona.

Abbiamo perso le auto e tutto quello che serve per godersi una meritata vacanza dopo un anno di lavoro: dal vestiario al computer, dai documenti alle chiavi, dai libri alle biciclette, dalle attrezzature ai gioielli, le racchette da tennis e le scarpe da calcetto, e gli oggetti affettivi che non potremmo ricomprare mai. Abbiamo acquistato questa esperienza che ci porteremo per sempre con noi. Ora che sembra tutto finito, tornato a casa a distanza di giorni da quel terribile martedì 24, voglio ringraziare la gente del Gargano che ci ha aiutato e voglio continuare a partecipare al dolore di chi tra le fiamme ha perso i propri cari.

Ma la loro disperazione e la sofferenza di migliaia di persone mi obbliga a riflettere. E rifletto sugli fatti successi e che in questi giorni mi circolano sovente in testa.

-su chi, visti i presupposti anche meteorologici dei giorni prima, non ha messo in preallarme la protezione civile e la popolazione;

-su qual è la pena giusta per chi causa un incendio;

-su chi avrebbe dovuto avvertirci prima del pericolo;

-su chi avrebbe dovuto organizzare i soccorsi;

-sul ritardo con cui si è cercato di spegnere gli incendi;

-sulla quantità e sulla qualità dei mezzi antincendio usati;

-sul ritardo di chi, preposto, sarebbe dovuto venire a salvarci;

-su chi avrebbe dovuto prevedere che una sola strada che va alla baia di San Nicola può trasformarsi in una trappola per topi;

-su chi avrebbe dovuto creare una zona cuscinetto tra il camping e il bosco;

-su chi compra pochi Canadair, o non li fa volare, e qual è la sua giusta pena;

-su chi preferisce comprare i Mangusta, gli F16, i Tornado, o gli F35;

-su chi organizza la manutenzione dei velivoli (tutti), e quanti risorse a ciò si destinano;

-su un fax che arriva alla Protezione Civile più di due ore dopo;

-su una disorganizzazione che non ha stupito i nostri amici campeggiatori tedeschi;

-sulla mancanza assoluta di un piano per predisporre e coordinare l’emergenza;

-su chi ci risarcirà i danni subiti, materiali, morali ed umani;

-sui mezzi di informazione che parlano o scrivono sempre di Guardia Costiera, Carabinieri, Protezione Civile, Capitaneria di Porto, Corpo Forestale, Vigili del Fuoco ed altri corpi;

-sul fatto che, per dire la verità, tantissimi di noi si sono salvati solo per l’intervento straordinario e impavido dei PESCHICIANI che ci hanno soccorso con le loro imbarcazioni private e ci hanno poi vestito e accudito volontariamente;

-su questa metafora tutta italiana della gente che fa, senza nessun onore, e dei papaveri che ci sguazzano dentro;

-su questa metafora sempre tutta italiana del deficiente, del delinquente, del deficiente-delinquente che disfa e dei papaveri che comunque dentro quel misfatto sguazzano.

- e infine, la più raccapricciante, su quante sarebbero state le vittime se l’incendio fosse divampato di notte (centinaia, forse migliaia), meglio non pensarci, o forse sarebbe meglio pensarci.

In occasione del funerale del pilota di Canadair Andrea Golfera, deceduto in Abruzzo, che onorerei più di altri, il nostro presidente del consiglio ha detto “coloro che appiccano fuoco non vogliono bene all’Italia”, sono d’accordo con lui, questi poveri cristi dovrebbero pagarla cara. Però chiedo, considerando le riflessioni che ho elencato e che continuano a occuparmi la testa, Lei, signor presidente, crede veramente che chi ha incarichi di comando nella nostra Italia voglia bene realmente all’Italia?

Forse avrebbe dovuto aggiungere che anche coloro che non spengono sollecitamente gli incendi, qualunque sia il loro compito o incarico, non vogliono bene all’Italia. Io per ora ringrazio solo la gente di Peschici, loro sì che ci hanno voluto bene.

Sandro Sablone

 GARGANO NUOVO - marzo

 

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