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01/05/2016

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LA FESTA DEL LAVORO DI TANTI ANNI FA

Clicca per Ingrandire Gli effetti devastanti dell’ultima guerra mondiale hanno messo a dura prova la maggior parte della popolazione garganica. Le famiglie provate da lutti e malattie sono diventate ancora più povere e la classe operaia ancora più segnata dalla miseria. Molti genitori sono stati costretti ad affidare i propri figlioletti a gestori artigianali e agricoli per garantire loro un pezzo di pane. I ragazzi venivano messi a disposizione delle maestranze per l’intera giornata e non venivano neanche iscritti alla scuola. Gli scapaccioni erano consentiti dai superiori per qualche errore banale e per placare i cattivi umori dei superiori. Apprendere un mestiere era un obbligo. L’apprendistato, per coloro che intraprendevano l’arte della campagna, consisteva nel pascolare le bestie ricevendo come retribuzione il pane quotidiano, un litro di olio e un chilo di sale al mese, una forma di cacio a Natale (di grandezza a discrezione del padrone) e una piccola paghetta. I ragazzi erano già maturi e consapevoli della situazione economica familiare tanto da risparmiare l’olio e il sale, e riportare la quantità residua alle proprie case.

I genitori pattuivano coi datori di lavoro il salario e due giorni di riposo bimensile e la garanzia della festività del 1° Maggio. I giovani lavoratori, oltre alla fatica della giornata lavorativa, dovevano sottostare agli ordini degli anziani garzoni: prelevare acqua da pozzi e cisterne, raccogliere legna per il fuoco serale, lavare la pentola e il piatto (unico per tutti), attendere che gli anziani iniziassero l’assaggio dei pasti trattenendo il proprio languore. Rispetto e obbedienza verso l’anziano e il padrone erano doveri indiscutibili. Il Segno della Croce era l’unica preghiera che conoscevano per ringraziare il Signore dopo aver portato la mandria nella stalla ogniqualvolta le intemperie incombevano in aperta campagna e le bestie si spaventavano per il vento, i tuoni e i fulmini, e non erano più controllabili e prendevano direzioni diverse.

La festa del 1° Maggio era come onorare le prestazioni di tutti i lavoratori, era il coraggio represso che si sprigionava attraverso lo sfogo collettivo, era la rivalsa di tutte le ingiustizie accumulate durante l’anno. I preparativi iniziavano nei giorni precedenti alla festa, i ragazzi e le donne si dileguavano nei campi per raccogliere fiori rossi e bianchi perché i loro petali venivano utilizzati dai manifestanti. La mattina del primo Maggio la popolazione si radunava nella piazza davanti alla Camera del Lavoro per formare il corteo. I più piccoli in prima fila, vestiti di camicie rosse e in mano le bandierine con lo stemma della falce e del martello, poi le donne col capo ornato di ghirlande rosse; alcune di esse sostenevano grossi cesti pieni di petali di rose e papaveri che lanciavano per terra al passaggio di qualche rappresentante sindacale e di partito. Gli esponenti di spicco portavano all’occhiello il garofano rosso e col megafono pronunciavano frasi di rivendicazione oppure davano l’inizio all’inno del partito: “Avanti popolo, alla riscossa, bandiera rossa, trionferà” e tutte le bandiere sventolavano contemporaneamente. Gli uomini al seguito coi propri mezzi di lavoro - biciclette ornate di fiori rossi, asini e muli ricoperti di mantelli rossi - tutti allineati al seguito del corteo. Appena la banda dava inizio all’inno del “1° Maggio o di Bandiera Rossa”, gli animali ragliavano fortemente dallo spavento. Il corteo, in prossimità dell’abitazione di qualche benestante, aumentava il volume degli inni provocatori diventando sempre più assordante. Questi i versi: “Mangiatillo e sugatillo il limone / lo sappiamo che non ti piace / ma oggi devi farti capace / che il limone devi mangiare”. Era l’unico giorno in cui i padroni sostituivano i loro garzoni per i fabbisogni della campagna.

L’altro corteo, più contenuto, quello della democrazia cristiana, partiva dalla parte opposta ed era composto da impiegati, professionisti e praticanti religiosi con le bandiere bianche marchiate dallo stemma dello scudo crociato, meno affollato dell’altro ma più ricco di mezzi. Al seguito, i primi trattori che trainavano rimorchi con sopra le donne che lanciavano petali di rose bianche e margherite. I cavalli avevano le criniere intrecciate, ricoperti con mantelli bianchi, preparati come a partecipare a vecchi rodei medievali. Le bestie scalpitavano stordite dal canto di “oh bianco fiore simbolo d’amore” oppure dagli applausi che riceveva l’esponente del partito per ogni battuta pronunciata al megafono. I due cortei si svolgevano nel pieno rispetto reciproco, per ordine e compostezza, e si scioglievano dopo i comizi tenuti dai rispettivi rappresentanti politici e sindacali che fissavano l’appuntamento nel pomeriggio per la scampagnata in due località diverse. I luoghi prefissati, in aperta campagna, erano paragonabili all’invasione di formiche colorate che prendevano d’assalto frittate, formaggi, lampascioni al forno, salsicce, taralli e ciambelle, tutti prodotti fatti in casa, mentre il vinello aspro nostrano, posto nei fiaschi, veniva sorseggiato e il recipiente passava di mano in mano. Quel liquido alimentava ancora di più lo sfogo e liberava battute, risate e gesti provocatori, nei confronti delle maestranze e dei padroni.

Per l’occasione si organizzavano diverse attività agonistiche, dove i protagonisti erano gli stessi manifestanti che si misuravano nel tiro alla fune, nella corsa dei sacchi e si allestiva la cuccagna composta da un palo con appesi i prodotti alimentari legati dallo stendardo rosso per il Partito Comunista e dallo stendardo bianco per il partito della Democrazia Cristiana. I partecipanti che toccavano lo stendardo per primi portavano a casa i prodotti. I vincitori erano sempre i ragazzi poveri, bramosi di impossessarsi degli alimenti riscattando la fame addomesticata. La corsa degli asini era lo spettacolo più divertente. Gli animali non sempre ubbidivano al proprio fantino, si fermavano di colpo disarcionandolo oppure prendevano direzioni diverse ragliando fortemente. Per l’occasione si organizzava anche una gara ciclistica con la partecipazione di molti corridori di regioni limitrofe e la strada faceva da vera trincea ai manifestanti dei due partiti. Prima dell’arrivo dei corridori era il direttore di gara, affacciato allo sportello della Balilla, unica macchina al seguito, che dettagliava al megafono l’andamento della corsa. Quando annunciava la fuga di qualche corridore nostrano, il boato di gioia s’innalzava nei pressi dell’arrivo, la folla si ammucchiava velocemente lasciando pochissimo spazio al passaggio dell’autovettura.

I nostri atleti si allenavano dopo aver zappato l’orto, unica loro palestra, e l’alimentazione di quel tempo consisteva in “pane, scorza e mollica”. Spesso per partecipare alle gare in altri paesi, partivano in bici la mattina presto, magari vincevano e poi facevano ritorno alle proprie case sempre in bici. Questi personaggi erano amati da tutti, non tanto per il valore delle vittorie ma per come si allenavano, senza trascurare il duro lavoro quotidiano. Il successo sprigionava la gioia di tutti i presenti. Abbracci e brindisi annientavano completamente la rivalità; il luogo improvvisamente si trasformava in un unico colore “bianco e rosso”, colori che nel dopoguerra hanno annientato il nero. La vittoria esaltava il valore umano accampato in ogni cittadino garganico, rappresentava il riscatto della situazione sociale, rappresentava lo stimolo per la buona riuscita, giacché in molti erano consapevoli che avrebbero abbandonato la terra natia e s’immedesimavano vincenti nel confronto con gli ostacoli e i rivali che avrebbero incontrato lungo le strade del mondo.

Attualmente il 1° Maggio si svolge in modo diverso, la piazza della Capitale è l’unico luogo per la scampagnata dove i lavoratori arrivano da ogni parte d’Italia stremati dai lunghi viaggi in pulman o in treno messi a disposizione dai rappresentanti politici e sindacali per ascoltare i loro comizi confezionati di belle parole, di frasi con verbi ben coniugati e tantissime promesse, e si concludono col suono assordante del concerto rock. La manifestazione garganica di quel tempo era sentita da tutta la popolazione, era più viva, era più bella, era l’embrione della Libertà che sbocciava con la Partecipazione. Gradirei onorare gli organizzatori di quel tempo che, coinvolgendo i cittadini a mettere a disposizione il proprio tempo libero, hanno saputo organizzare manifestazioni senza incidenti; le donne, nonostante la riservatezza rimarcata e osservata di quei tempi, che hanno accompagnato senza vergogna i propri mariti, i propri figli e gridato: “1° Maggio, Festa dei Lavoratori”; tutti quei ragazzi temperati dallo spirito di sacrificio che si sono riscattati raggiungendo poi traguardi ambiti in Italia e nel mondo, nonostante l’analfabetismo e la cruda reale povertà; i tanti protagonisti sportivi nostrani passati nel dimenticatoio; tutti coloro che hanno sfilato per le strade con entusiasmo pacifico e hanno onorato e arricchito “quel dì di festa”. A tutti, proprio a tutti, va il meritato applauso.

Antonio Monte


 Redazione (foto raistoria.rai.it)

 

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