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10/02/2016

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UNA BRUTTA PAGINA DI STORIA

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INTRODUZIONE = Fra il 1943 e il 1947, dalle 10mila alle 15mila persone furono gettate nelle foibe, le cavità carsiche ai confini orientali italiani, o uccise dopo processi sommari dai comunisti di Tito. “Foiba”: termine con cui si indicano i grandi inghiottitoi (o pozzi, non caverne), tipici della regione giuliana, che assumono spesso dimensioni spettacolari.

DICHIARAZIONI = «Già nello scatenarsi della prima ondata di cieca violenza in quelle terre nell’autunno del 1943, si intrecciarono “giustizialismo sommario e tumultuoso, parossismo nazionalista, rivalse sociali e un disegno di sradicamento” della presenza italiana da quella che era, e cessò di essere, la Venezia Giulia. Vi fu dunque un moto di odio e furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947, e assunse i sinistri contorni di una “pulizia etnica”» (Giorgio Napolitano, Presidente della Repubblica,10 febbraio 2007)

«La storia e la memoria comune possano fornire un grande aiuto per guardare al futuro e scacciare dal destino dei nostri figli ogni pulizia etnica e ogni odio razziale» (Sergio Mattarella, Capo dello Stato, rinnovando la memoria delle tragedie e delle sofferenze patite dagli italiani nella provincia di Trieste, in Istria, a Fiume e nelle Coste dalmate - 10 febbraio 2016).

CAUSE E CONCAUSE = Dall’esame dei fatti storici:
• la contrapposizione nazionale ed etnica fra sloveni e croati da una parte e italiani dall’altra derivante dall’imporsi del concetto di nazionalità e stato nazionale nell’area;
• gli opposti irredentismi, per cui i territori mistilingui dalmati, giuliani e del Quarnaro dovevano appartenere in esclusiva all’uno o all’altro ambito nazionale, e quindi all’uno o all’altro Stato;
• le conseguenze della prima guerra mondiale, con una intensa battaglia diplomatica per la definizione dei confini fra Regno d’Italia e neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni con conseguenti tensioni etniche, che portarono a disordini locali e compressioni delle rispettive minoranze fin dal primo dopoguerra;
• il tentativo di assimilazione forzata delle minoranze slave della Venezia Giulia durante il ventennio fascista;
• l’occupazione militare italiana, durante la seconda guerra mondiale, di diverse zone della Jugoslavia durante le quali si verificarono anche crimini di guerra contro la popolazione civile;
• la guerra nel teatro jugoslavo-balcanico, uno dei fronti più complessi e violenti;
• la convinzione dei partigiani jugoslavi che erano legittimati ad annettere al futuro Stato jugoslavo quella parte della Venezia Giulia e del Friuli (Litorale sloveno e Istria), abitata prevalentemente o quasi esclusivamente da croati e sloveni;
• la convinzione, diffusa fra i partigiani jugoslavi, che la guerra di liberazione jugoslava non avesse solo un carattere ‘nazionale’, ma anche ‘sociale’, con la popolazione italiana percepita anche come ‘classe dominante’ contro cui lottare;
• la natura totalitaria e repressiva del costituendo regime comunista jugoslavo.

EVOLUZIONE = La spirale di violenza si innescò immediatamente dopo la caduta del regime nazifascista, favorita dalle tensioni politiche e sociali presenti sul territorio, che contribuirono al compimento di azioni di natura giustizialista nei confronti dei sostenitori del precedente regime e furono successivamente indirizzate da alcuni nuclei di potere, formatisi in seno al movimento di resistenza, all’eliminazione di potenziali avversari politici, additati come nemici del popolo. In questa analisi non vanno trascurate anche le azioni criminali di semplici delinquenti, che approfittarono di confusione e temporanea assenza di forze di polizia, preposte al mantenimento dell'ordine pubblico, per compiere azioni criminali e azioni di violenza gratuita.

Ciò premesso, il fenomeno delle foibe può essere considerato un evento derivante da un disegno politico annessionista, il cui duplice obiettivo era l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia (si voleva neutralizzare chi - essenzialmente italiani - si opponeva all’annessione di queste terre alla Jugoslavia) e l’avvento di un governo comunista jugoslavo in quelle terre (si volevano neutralizzare reali o potenziali oppositori del costituendo regime comunista). Pertanto gli eccidi “si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra, e appaiono in larga misura il frutto di una violenza di Stato”, attuata con la repressione politica e l’intimidazione, in vista dell’annessione alla Jugoslavia di tutta la Venezia Giulia (incluse Trieste e Gorizia) e per eliminare gli oppositori (reali o presunti) del costituendo regime comunista.

In vista di questi due obiettivi era necessario reprimere le classi dirigenti italiane (compresi antifascisti e resistenti) per eliminare ogni forma di resistenza organizzata. Questo aspetto era particolarmente importante a Gorizia e Trieste, della cui annessione gli Jugoslavi non erano (a ragione) certi. Tito, pertanto, fece il possibile per occupare le due città prima di ogni altra forza alleata, per assicurarsi una posizione di forza nelle trattative. Durante l’occupazione di Gorizia e Trieste diverse migliaia di italiani furono arrestati, uccisi o deportati nei lager jugoslavi (soprattutto nel campo di lavoro e detenzione di Borovnica e nel carcere dell’Ozna di Lubiana). Neutralizzando i vertici dirigenziali, ed eliminando o intimorendo i cittadini italiani, si tentò di far credere che gli jugoslavi fossero la maggioranza assoluta della popolazione: la composizione etnica sarebbe stata un fattore decisivo nelle conferenze del dopoguerra e per questo motivo la riduzione della popolazione italiana risultava essenziale.

Lo sfruttamento del clima giustizialista per eliminare, oltre ai sostenitori del regime fascista, anche potenziali oppositori politici, accomuna (secondo lo storico Boris Gombač) i massacri delle foibe alle violenze perpetrate nello stesso periodo da gruppi radicali comunisti nel cosìddetto triangolo della morte in Emilia dove, fra le migliaia di vittime della violenza insurrezionale, vi furono anche circa 400 fra proprietari terrieri, industriali, professionisti, preti e altri appartenenti alla borghesia, solo perché dichiaratisi anticomunisti.

ASPETTO ‘VENDICATIVO’ = Essendo fascisti e loro fiancheggiatori in gran parte italiani (sia pure non in numero superiore rispetto ad altre regioni italiane), e opponendosi essenzialmente gli italiani all’annessione alla Jugoslavia, fu frequentemente utilizzata, soprattutto a livello locale, l’equazione “italiano = fascista”. Questo aspetto provocò, localmente, episodi di insurrezioni spontanee dei ceti popolari, in cui molti colsero anche l’opportunità di portare avanti vendette personali o compiere rapine eliminando i testimoni. Tali episodi si verificarono prevalentemente nel corso degli eccidi del settembre-ottobre del 1943, avvenuti in un contesto in cui vennero a mancare i poteri costituiti, e si rivolsero non solo verso i rappresentanti del regime fascista, ma anche verso gli italiani in quanto tali.

LE VITTIME = Fra i caduti figurano non solo personalità legate al Partito Nazionale Fascista, ma anche ufficiali, funzionari e dipendenti pubblici, insegnanti, impiegati bancari, sacerdoti, parte dell’alta dirigenza italiana, contraria sia al comunismo sia al fascismo, tra cui compaiono esponenti di organizzazioni partigiane o anti-fasciste, autonomisti fiumani seguaci del politico italiano Riccardo Zanella, collaboratori e nazionalisti radicali e semplici cittadini. In paralleli eccidi furono coinvolti anche cittadini italiani o ex italiani di nazionalità slovena e croata. Tali uccisioni ebbero una matrice esclusivamente politica, rimanendo esclusa quella etnica, intendendo il costituendo regime comunista “oltre a fare i conti col fascismo, eliminare tutti gli oppositori, anche solo potenziali”.

TESTIMONIANZA = “Dopo giorni di dura prigionia, durante i quali fummo spesso selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell’alba, sentii uno dei nostri aguzzini dire agli altri ‘facciamo presto, perché si parte subito’. Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico filo di ferro, oltre a quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo i soli pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze. Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un filo di ferro, ci fu appeso alle mani legate un masso di almeno 20 kg. Fummo sospinti verso l’orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, c’impose di seguirne l’esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro.

“Ma a questo punto accadde il prodigio: il proiettile anziché ferirmi spezzò il filo di ferro che teneva legata la pietra, cosicché, quando mi gettai nella foiba, il masso era rotolato lontano da me. La cavità aveva una larghezza di circa 10 mt. e una profondità di 15 sino la superficie dell’acqua che stagnava sul fondo. Cadendo non toccai fondo e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra e percepii le parole ‘un’altra volta li butteremo di qua, è più comodo’, pronunciate da uno degli assassini. Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott’acqua schiacciandomi con la pressione dell’aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutive, celato in una buca. Tornato nascostamente al mio paese, per tema di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo.”

Questa testimonianza della primavera del 1945 fu pubblicata il 26 gennaio 1946 sul periodico della Democrazia Cristiana triestina “La Prora”, poi riportata integralmente e anonimamente nell’opuscolo “Foibe, la tragedia dell’Istria”, edito dal CLN (Comitato Liberazione Nazionale) istriano. A partire dall'inserimento della testimonianza in un libro di Giuseppe Bedeschi nel 1987, questa è stata poi varie volte ripresa dalla pubblicistica. Qualcuno, sottoponendo il testo a una serrata critica, è giunto ad affermare che siamo in presenza di falsi testimoni.

 Redazione + Wikipedia

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 11/02/2016 -- 10:35:02 -- vincenzo

Sulla pagina f/b della prof Teresa Maria Rauzino, ho trovato il riscontro che avrei voluto dare a questo articolo. Qui dico solo due parole: AD OGNI AZIONE, CORRISPONDE UNA REAZIONE. Cioè, non può esserci reazione senza che questa sia stata innescata da un'azione. Pur rimanendo UNA BRUTTA (direi ORRIBILE) PAGINA DI STORIA, le reazioni degli slavi temo che trovino ragione nell'azione fatta dall'Italia fascista. Se, invece del regime comunista titino, si fosse instaurato un diverso sistema, avremmo potuto sperimentare una diversa reazione, ma sempre reazione sarebbe stata. Cruenta od incruenta? Non lo sapremo mai! E, ogniqualvolta capita di sentirci aggrediti ed offesi da altri, poniamoci la bella domanda: io che cosa ho fatto loro? Noi cosa abbiamo fatto in Africa?

 
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