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03/07/2008

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Cosa non si farebbe per diventare… nobili!

Clicca per Ingrandire Lo storico Ciro Cannarozzi dedica un intero capitolo delle sue “Biografie Ischitellane” ai Principi Pinto (lo stemma nella foto del titolo; ndr), “una famiglia illustre”, che si era insediata ad Ischitella il 19 novembre del 1674. Luigi, figlio di don Emanuele e nipote del capostipite, ereditò il feudo quando aveva appena sei anni. Si trasferì nel Castello nel 1691, all’età di 25 anni. Lo “Stato delle anime” della Chiesa Matrice attesta il numero delle persone al suo servizio: gli abitanti del Castello erano dieci nel 1691 e salirono a diciannove l’anno successivo. Luigi Pinto, che aveva sposato la nobile Rosa Caracciolo di Napoli, morì a Ischitella il 22 maggio 1704, alla giovane età di 36 anni. Venne sepolto nella Chiesa di San Francesco, dove nel 1749 il figlio gli eresse un monumento sepolcrale “con ornamento di pietra e mezzo busto”. Emanuele Pinto nel 1714 restaurò l’antico Castello di Ischitella (foto 1-2 sotto; ndr), arricchendolo con una facciata monumentale e con finestre elegantissime; vi aggiunse alcune stanze al primo piano e innalzò il secondo piano. Possedeva anche il feudo di Peschici: nel 1735 restaurò il Castello, che ancora oggi è possibile ammirare per la posizione a picco sulla Rupe (foto 3 sotto; ndr). A Napoli, Emanuele era solito allestire, nel suo palazzo di Chiaia, il più bel presepe della città. In una cronaca della “Gazzetta di Napoli è” riportato che l’ultima Viceregina austriaca “. .. vi andò preceduta da un drappello di guardie tedesche ed accompagnata da alcune dame”.

Un manoscritto del genealogista Montecco, risalente al 1693, ci informa sulle “vere origini” della famiglia Pinto Freitas y Mendoza, con punte di vero e proprio gossip. Maliziose “avvertenze per il lettore” costellano dall’inizio alla fine il testo, rendendo la lettura piacevole come se fosse una cronaca rosa dei nostri tempi.

Il Montecco svela l’originaria fede ebraica dei Pinto: «Questa famiglia che al presente per le ricchezze, titoli, cariche e nobili Parentadi, fà molta figura in Napoli, è Portuese (portoghese; ndr) di origine, popolare di conditione, e sono anche alcuni di opinione che sia di setta Giudaica. Una setta molto fertile in quel Regnio, siccome habimo veduto in molte di queste famiglie venute qui che, in palese mostrandosi esser Cristiani, in segreto poi osseruono (osservano; ndr)) con molta puntualità il rito Giudaico, del che accusati ne furono a’ nostri tempi e castigati».

Indubbia, secondo il Montecco, è l’origine mercantile del “nobile” casato. Il capostipite della famiglia fu Don Loise Freitas. Dal Portogallo “trapiantò” la sua casa in Napoli, trasferendovi le “pinguissime ricchezze” guadagnate da lui e dai suoi antenati con l’esercizio della mercatura. Con solidi capitali “potè crearsi uno stabile piedistallo”. Il casato “ebbe con lui due figliuoli di qualche apparenza, li quali essendo entrati nell’età dell’adolescenza spacciavano dà per tutto nobiltà, e cavalleria”. Non mancarono, nel ruolo di “clienti d’eccezione”, personaggi insigni della città, nobili spiantati che, attratti dalla ricchezza dei due rampolli Freitas Pinto, li accompagnavano “corteggiandoli, e adulandoli», e inserendoli negli ambienti elitari della Napoli di quel tempo.

Il Montecco ci documenta la scalata sociale dei rampolli Pinto nella Napoli di fine Seicento: il desiderio di integrarsi a pieno titolo nell’aristocrazia spagnola li spingerà a nascondere le loro origini portoghesi e acquistare credito imparentandosi con due famiglie napoletane dei prestigiosi Seggi nobiliari di Porto e Capuana.

Don Louise fu sepolto a Napoli nella Chiesa di Santo Spirito dei Padri Predicatori. Proprio qui venne posta un’epigrafe, con una “lunga iscrizione commemorativa”, celebrante le nobili origini della famiglia. La menzogna era tanto evidente che saltava persino agli occhi degli stolti: «Tutti gli uomini - osserva il Montecco - persino quelli non solo di mediocre, ma di poco intendimento, sanno bene che tali memorie, e iscrizioni si fanno speciose, e magnifiche, piene di bugiarde vanità, per far credere agl’Ignoranti quel che mai fù, siccome è questa inguine all’origine della famiglia, e gl’antichi inventati personaggi, et alle cariche militari esercitate».

L’epigrafe tombale di Don Louise, vanto della nobiltà del personaggio e della sua casata, non corrispondeva quindi affatto a verità. Per provare il suo assunto, Montecco ci racconta quella che egli chiama una “nobil curiosità” a proposito della sepoltura del capostipite dei Pinto. Don Emanuele e Don Gasparre, per avvallare la nobiltà del morto agli occhi di tutti, fecero “porre sulla persona di Don Louise l’habito di Alcantara in luogo di quello d’Avis“. Ma lo scotto dell’origine plebea si pagava a duro prezzo, a quel tempo, nonostante la ricchezza. La cosa non passò inosservata: i Cavalieri dell’ordine nobilissimo di Alcantara se ne accorsero e ordinarono di togliere al morto l’uniforme con cui era stato indebitamente “bardato”.

Una vera e propria umiliazione per i rampanti eredi, costretti a svestire pubblicamente il cadavere del padre di un abito “nobiliare” che non gli apparteneva e rivestirlo con un altro di che tutti consideravano di umile origine. Un affronto che dovette pesare, spingendo i Pinto a volere a tutti i costi sancire, anche dal punto di vista strettamente giuridico, una nobiltà non posseduta dalle origini, o perlomeno ritenuta di rango inferiore dall’opinione corrente di chi vantava il proprio “sangue blu”.

Le immense ricchezze derivanti dalla mercatura, che il primogenito ereditò dal padre, spinsero la casata ad acquistare un intero feudo sul Gargano, con il relativo blasone principesco. Infatti, Don Emanuele, primogenito di Don Louise, “fe’ compra della Terra di Ischitella nella provincia di Capitanata, sopra della quale ottenne titolo di Prencipe, e ciò oltre di magnifiche possessioni, e beni stabili”. Comprò altresì remunerative mansioni e “uffici” del Regno di Napoli: “fe’ anco compra del decoroso, e lucroso officio di Scrivano di Ratione alla Regia Corte”. Questa carica, unita a quella di Consigliere di Stato e allo “specioso titolo di Prencipe”, gli permise di diventare un “personaggio di molta stima, e rispetto”. Grazie alle ingenti ricchezze, che maggiormente gli spianarono la strada, poté essere finalmente insignito dell’abito nobilissimo dei Cavalieri di Colatrava, per ricompensa avutane dal Re.

Intanto, la famiglia si era ingrandita: Don Emanuele Pinto e Donna Geronima Capece Bozzuto ebbero numerosi figli, dell’uno e dell’altro sesso: sopravvissero soltanto quattro maschi (Don Louise, il primogenito, destinato dopo la morte del padre a ereditare titolo e beni della famiglia; il secondo che ricoprì il prestigioso incarico di “scrivano di ratione”; il terzo di nome Antonio, e il quarto di nome Fortunato), e due femmine (la prima, Donna Teresa, era stata maritata con buona dote a Giuseppe Caracciolo, marchese di Brienza, feudatario di Vico del Gargano); l’altra era monaca nel convento di San Sebastiano.

Il Montecco chiude il suo gossip riferendoci una “notizia piuttosto riservata” che, dopo la morte di don Emanuele Pinto, circolava a Napoli sulla vedova Geronima Capece: “La Bozzuta vive nella stessa casa dei figli, e dicono le male lingue de sfaccendati che malamente parlano de’fatti altrui che poco serba il decoro della sua honesta (onestà); et hauendo accumulato col defonto (defunto; ndr) marito peculio di considerazione, ultimamente nell’anno 1694 è passata alle seconde nozze con Don Fabio de Dura, al quale per detto affetto hauea (aveva; ndr) ella procurata la grazia della scarcerazione”.

La principessa madre si era dunque risposata: un secondo matrimonio “indecoroso” con un nobile spiantato, davvero poco raccomandabile, che aveva subìto l’onta del carcere e che, solo grazie all’influenza a corte della nobildonna, era stato graziato e liberato. Non c’è che dire: una potente “raccomandazione”, quella di donna Geronima, in nome della nuova e travolgente passione d’amore!

Teresa Maria Rauzino

 l'Attacco (3 luglio 2008)

 

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