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09/08/2013

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CÀLENA: “DOLCISSIMA A VIVERE VECCHIEZZA”

Clicca per Ingrandire Nella calura del meriggio estivo, in una Peschici assolata e scottata dal clima vacanziero, davo uno sguardo distratto all'antica libreria di mio padre, nella vecchia casa in Piazza Municipio. Tra scaffali polverosi, antichi libri e i fori di qualche tarlo sopravvissuto alle resine dei restauri, un sottile volume di poesie ha sorpreso e destato la mia sonnolenta attenzione, indebolita dall'afa d'agosto: Vincenzo Fumarola, “Hai fatto gli ulivi di pietra”. Le pagine inframmezzano i versi con immagini in bianco e nero. Alcune immortalano Peschici: mi colpisce la firma artistica di Romano Conversano.

Un flash epifanico, dolce come una proustiana “madeleine”, mi schiude remoti ricordi: rivedo tra memorie che si fanno via via più nitide, Conversano, l'artista, il pittore dall'acquerello poetico, l'uomo alto, dalla barba ricciuta come un trionfante imperatore romano di cui, come per destino, nel nome e nel piglio portava l'impronta, risento la sua voce tonante che richiamava all'ordine mio figlio piccolo e scorrazzante. Poche sapienti pennellate, profili senza angusti perimetri, forme sinuose: lo vedevo da bambina disegnare con mano sicura paesaggi e corpi femminili, che trasformavano in un improvvisato ma intenso atelier l'ultima sala della vecchia casa di fronte al Municipio e fermavano per sempre quelle lontane estati peschiciane. Pur nella mia ingenuità infantile, seduta a terra nella stanza dal soffitto alto con i miei cugini di Altamura, intuivo che quelle lezioni di pittura erano qualcosa di importante. Allora era solo un gioco e mi divertivo fra tavolozze, pennelli e affettuosi dispetti di noi bambini che scherzavamo con acqua, risate e furti di colori. Oggi ne comprendo il privilegio.

Frugo con curiosità nella memoria: Vincenzo Fumarola. Schivo, colto preside veneto: nei miei ricordi di ragazza era l'uomo silenzioso, che mi appariva saldo nella sua spiritualità, seduto ai primi banchi nella chiesetta del Purgatorio, sempre, fedelmente, accanto a sua moglie Graziella, nobildonna peschiciana che con la sua voce chiara e sicura rafforzava il senso sacro delle letture domenicali, scandiva con tono solenne le parole, rischiarava la cupa luce di quel tempietto in Piazza del Popolo, nelle strade antiche di Peschici e ravvivava, per qualche minuto, quella chiesetta con la volta minacciosa, in cui un Trionfo della Morte continua a spaventare i fedeli, inquietante, come un ferreo “memento mori”.

Insieme, vicini, sposi sempre uniti, dopo la messa, Graziella e Vincenzo si avviavano fra i ciottoli, sostenendosi come nella vita, e arrivavano al loro storico, monumentale palazzo, varcavano l'antico portone aperto fra due colonne dai capitelli a volute, e si perdevano innamorati, oltre quella soglia, nelle stanze di una dimora che dalla sua loggetta del Quattrocento guarda ancora infinitamente il mare.

Fra le pregevoli poesie del prezioso volumetto da me per caso rinvenuto, una, in particolare, mi induce a riflettere. Si intitola “La Badia di Càlena”. È dedicata alla Madonna di Càlena e sembra un elegiaco canto sulla storia rosa dal tempo, sull'arte ridotta al silenzio, su un monumento diventato rudere, sulla bellezza abbandonata, sull'immobilità dell'uomo che, inconsapevole, consegna se stesso all'oblio se trascura le tracce del passato, annulla la memoria se non le vede e passa oltre, senza sapere dove andare. Nel ritratto di Fumarola, datato 1970, l'abazia di Càlena già appariva devastata e tristemente abbandonata nella sua mole solitaria.

«Santa Maria di Càlena
dolcissima a vivere vecchiezza.

Quattro
mura infilate nella pace
di giorni ancora fanciulli
spalancano un tetto
perduto per ritrovare il tuo cielo.
Nicchie già nitide spente
sull'ostinato diporto
del vento a cucire le frange
alla pula e i damaschi del timo
preclusi orizzonti
le bifore vane prosciolsero
negli abbracci doloranti di un'edera
per rimandare oltre il giorno
il fuoco i canneti lo stagno le barche
il lamento del mare.

Santa Maria di Càlena
dolcissima a morire vecchiezza.

I pastori non sono che il tempo
che ti parlano
tu bevi i silenzi deserti
degli ulivi e ti cali
nel letto dell'erba
ombra ferita nel volo
di una civetta rapida al tramonto».

“Quattro mura infilate nella pace / di giorni ancora fanciulli” sono versi che segnano l'austera monumentalità della chiesa di Càlena, proiettata da “giorni ancora fanciulli” e pieni di speranza verso un futuro immaginato, forse, dal poeta come raccoglimento nella preghiera, come ricerca spirituale che nella cornice di Càlena potrebbe trovare il giusto rifugio, la dimensione più adatta all'intima contemplazione della pace, dell'armonia tra uomo, Dio, natura, arte. E, invece, le mura di Santa Maria di Càlena “spalancano” solo “un tetto perduto”, una voragine che esclusivamente nella bellezza poetica del canto di Fumarola può evocare un simbolico abbraccio al cielo ma che, di fatto, testimonia la tristezza, l'anima svuotata nel cuore di Peschici.

Le “nicchie” dentro l'abazia, un tempo “nitide” - scrive Fumarola, - ravvivate cioè dalla fede, sono ormai “spente”, prive della luce promanante dagli sguardi e dalle pie orazioni dei devoti, “spente” perché vuote, disanimate, desolate. Anche le “bifore” sono “vane” e nel loro vertiginoso diroccamento non proteggono la chiesa, ma le schiudono orizzonti normalmente preclusi: non è, questa, la nobilitazione artistica del lontano che il tempio di Càlena rende vicino annullando, con la fede, le distanze. È soltanto un modo poetico per sottolineare che tra il fuori e il dentro non c'è separazione e solo imperversa una disarmante fluttuazione “sull'ostinato diporto del vento”.

Unica difesa, argine metaforico alla caduta, alla rovina, è “negli abbracci doloranti di un'edera” che con tenacia sorreggono il senso di una storia vilipesa dall'uomo. E partecipa al dolore della chiesa dimenticata “il lamento del mare” che, guardando Càlena, sembra piangere in lontananza l'ennesima espulsione di Dio per mano di un'umanità ingrata. Resta, allora, con i suoi “canneti” e lo “stagno”, a testimoniare se stessa, immobile, come “ombra ferita” di ciò che fu, l'antica abazia pietrificata in un palustre spazio senza vita, sovrastata dal “volo di una civetta rapida al tramonto”, triste presagio, forse, di una inevitabile fine, sotto un sole che non splende più.

Eppure, fra i “silenzi deserti” c'è chi, forse, si interroga ancora, nonostante tutto, sul senso del tempo e della storia, tristi pastori di leopardiana memoria che volgono i loro canti notturni a una muta interlocutrice, una badia che non può rispondere, ma che con la sua immutata bellezza ci inchioda a domande che non devono mai spegnersi, ci sprona a battaglie che non si possono demandare. Ogni poesia, quando è arte, evoca senza spiegare e lascia spazio a infinite interpretazioni.

Mentre chiudo il libro leggo gli ultimi versi della raccolta di Vincenzo Fumarola, in cui il poeta canta il suo amore per Peschici, per “l'eterno che sopraggiunge con un gesto vecchio di secoli”. Càlena è ancora questo nello sguardo innamorato di chi non la dimentica, è una “dolcissima a vivere vecchiezza”.

Liberiamo Càlena!

Teresa D'Errico

 Redazione

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 11/08/2013 -- 08:00:21 -- Paolo

immagini malinconiche, Teresa, quelle dipinte da Enzo! Malinconie che assalgono anche te, sprofondandoti nei tuoi 'remoti ricordi'. Kàlena evoca malinconie.

 
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