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25/05/2013

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LA ZUPPA DI ELIA

Clicca per Ingrandire Quando il primo Boston Whaler, dopo aver passato il grande strapiombo roccioso sotto il castello, ebbe doppiato il breve spazio di mare tra il piccolo molo e il ‘monaco’ con la madonnina, si trovò di fronte una spiaggia isolata e splendidamente primitiva. Non c’erano stabilimenti allora a Peschici, solo poche barche di pescatori ormeggiate pigramente davanti al primo tratto della distesa di sabbia sottile della lunga baia che finiva al trabucco di Monte Pucci. Sullo sfondo, a pochi metri dalla riva, solo i bassi magazzini del pesce e della pece che veniva lavorata all’interno e poi trasportata sulla piana di Foggia. In alto lassù, quasi irraggiungibili nonostante la ripida mulattiera, stavano arroccate l’una accanto all’altra, quasi a proteggersi dai venti invernali e dagli antichi assalti dei pirati saraceni, le povere case del paese. A un primo sguardo niente di particolarmente suggestivo né di lontanamente paragonabile ai colorati scorci e alle discese a mare di ben più note località di tante parti delle variegate coste della penisola (foto del titolo e 1 sotto; ndr).

Eppure le belle signore in prendisole e i loro atletici e raffinati accompagnatori restarono per un attimo interdetti, quasi rapiti da uno strano sentore ancora indistinto e imprecisato. Era come trovarsi all’improvviso in un altro mondo, antico e misterioso. Decisero comunque, visto che c’erano, di arenare il motoscafo sulla spiaggia pulita e senza tracce di ombrelloni per farsi un bagno ristoratore prima di ripartire per il resort di Pugnochiuso. Non si erano neanche guardati attorno e nuotarono allegramente spingendosi lievemente al largo in gioiose ampie bracciate e fermandosi ogni tanto pigramente a fare il morto e a guardare all’insù.

Non si poteva negare che quel paesino disteso ad arco su quei rocciosi saliscendi aveva un non so che di fascinoso e inquietante al tempo stesso. Chissà cosa c’era tra quelle stradine ripide e strette, tra quelle scale diroccate, tra quelle grotte fatte a case come di un popolo primitivo e nascosto? Era comunque bello starsene lì a galleggiare a pancia all’aria guardando all’insù a chiedersi cos’era questo inaspettato panorama.

Nuotarono ancora un po’ e poi tornarono a riva per prendere il sole sulla spiaggia vuota. Poteva essere all’incirca mezzogiorno e mezzo. Certo, era bello starsene lì distesi senza pensare a niente a farsi accarezzare dalla lieve e tiepida brezza marina, ma non avevano pensato a portarsi qualcosa da mangiare e soprattutto da bere per affrontare la giornata prima di tornare al bell’albergo dal quale erano partiti per quell’escursione in motoscafo. Qualcuno però disse: «Ragazzi, ma quella là in fondo non è una specie di trattoria, o qualcosa del genere?» Guardarono tutti da quella parte, cioè verso i magazzini e le rimesse tra la spiaggia e la stradina che conduceva al molo. «Forse è così. Andiamo a vedere. Chissà se riusciremo a mangiare qualcosa.»

Il ristorantino, se così si poteva definire, stava proprio insaccato in quella che una volta doveva essere stata una vecchia rimessa di pescatori. Fuori quattro tavolini con sedie in plastica e alluminio sotto una arrangiata tettoia di onduline di eternit. Due porte spalancate appena coperte da misere tende trasparenti lasciavano intravedere da un lato una cucina economica con sopra addirittura un telefono a parete, dall’altro addirittura dei tavoli interni apparecchiati con tovagliette a scacchi e banali stoviglie da mercato.

«Ehi, c’è nessuno?» chiede la bella signora bionda che si era appena messa il prendisole a fiori comprato venti giorni prima a Positano. «E’ possibile mangiare qualcosa?» Gli altri aspettano incuriositi. Dalla penombra dell’interno esce allora un omino piccolo con grandi baffi neri e l’aria gentile e decisa al tempo stesso.
«Prego, signori, si accomodino pure. Abbiamo un po’ di pesce fresco, se volete lo cuciniamo alla nostra maniera. Vi porto intanto un po’ di vino fresco del luogo e qualche bruschetta per aspettare.» L’invito è allettante e la sciccosa compagnia si sedette al tavolo esterno ben felice di poter alleviare così la gran fame che nel frattempo era cresciuta a dismisura.

Dentro al locale si intravedevano alcune donne che stavano armeggiando tra i fornelli. Mentre intanto altri due avventori, evidentemente del luogo, si erano venuti a sedere su un altro tavolo con l’aria di chi sapesse bene come avrebbe mangiato.

«Quella lì col grembiule bianco è mia moglie» disse l’uomo che li aveva accolti, portando in tavola due bottiglie di vino. «E io mi chiamo Elia.»
«Da quando siete aperti?» chiese uno degli uomini, accendendosi una sigaretta.
«Solo da un paio di mesi» rispose educatamente Elia. «Ma era tanto che avevo in mente di farlo. Cucinare il pesce è sempre stata la mia passione, dato che sono soprattutto un pescatore. Se permettete, signori» concluse con un sorriso accattivante, «vi farò assaggiare una zuppa come solo io la so fare.»
«Benissimo, siamo proprio curiosi di assaggiarla. E poi vi daremo il nostro giudizio.»
«Non ve ne pentirete, ve lo assicuro!» disse lui arricciandosi i baffi mentre una ragazza giovane portava in tavola le bruschette col pomodoro e le verdi olivelle locali.
«Bè, si comincia proprio a ragionare» dissero sempre più a proprio agio i novelli commensali, sgranocchiando l’improvvisato e gustoso antipasto.

Si sa che un buon vinello bianco fresco mette di buon umore e allontana le distanze, e così i ricchi e raffinati avventori – come dovevano certamente essere, dati i costumi alla moda e il costoso motoscafo ormeggiato sulla riva – cominciarono a chiacchierare con i due ‘paesani’ seduti all’altro tavolo, alzando i bicchieri e brindando alla bella e inaspettata giornata.

«Lui, il nostro Elia» disse uno dei due, senza riuscire a staccare gli occhi da una delle belle signore che lo guardava col fare provocante e disinvolto di chi la sa lunga «è veramente un tipo in gamba. Prima che cuoco sopraffino è stato il miglior pescatore della zona, ‘la lancia più veloce di Peschici!’»
«La lancia più veloce di Peschici, fantastico! E che vuol dire?»
«Proprio che la sua barca era la più veloce e che lui era il pescatore più esperto a cui tutti si affidavano per consigli e cose varie. Poi si occupava anche di mettere insieme il pesce degli altri e di venderlo ai grossisti del Gargano e di Foggia e San Severo. Insomma era il punto di riferimento di pescatori e commercianti. Un vero boss della zona, ma sempre onesto e gentile.»
«Bellissimo! Ma allora siamo capitati proprio nel posto giusto.»
«Ve ne accorgerete quando mangerete la sua famosa zuppa!»

Proprio in quel momento Elia arrivò portando un enorme pentolone di coccio con dentro un’infinità di specie di pesci annegati in un brodetto ribollente e quanto mai profumato. Tutti si sporsero per vedere cosa c’era dentro.

«Allora» disse lui con fare professionale, «qui ci stanno dei pezzi di pesce capone, delle triglie, un sarago, oratine, anelli di calamari, cozze e un po’ di sbarrone. Intendiamoci, tutto pescato questa mattina all’alba e fatto cuocere lentamente pezzo per pezzo in un leggero soffittino di olio locale con pomodorini, aglio, cipolla e peperoncino piccante. Vi consiglio per prima cosa di intingerci delle fette di pane fresco dell’antico forno del paese… Adesso mangiate, e poi mi direte!»

I signori non se lo fecero dire due volte e si gettarono senza contegno – lasciata da parte ogni forma di stucchevole educazione e bon ton – sulla terrina al centro del tavolo versandosi delle gran mestolate delle divina broda odorosa e fumante.
«Ehi, Celestre maledetto» dissero scherzosamente, ma non tanto, i due paesani, «ma ce n’è anche un po’ per noi?»
«Ma certo» rispose, «però dobbiamo essere gentili con i nostri nuovi ospiti, e servirli per primi! Noo?»

Non stiamo a raccontare nei minimi particolari come proseguì la faccenda, tra mugolii di piacere, brindisi a non finire – si narra che vennero fatte fuori ben dodici bottiglie tra i due tavoli, – schizzi di sugo qua e là, risate e battute piccanti, e ovviamente limoncino ghiacciato finale; fatto sta che l’allegra, anzi ormai allegrissima, comitiva si riavviò barcollando e tra grandi saluti al Boston Whaler e, dopo molti e impacciati tentativi di riaccendere il motore, se ne tornò all’esclusiva residenza da dove era venuta per raccontare a tutti della memorabile avventura.

Non si sa bene se fu proprio da quella volta che cominciò l’andirivieni della gente dell’alta società proveniente da Pugnochiuso, o dal Gusmai o dalle ville di San Menaio al ristorante “Da Elia”, ma è certo che negli anni seguenti la sconosciuta Peschici divenne meta ambita e molto chic di più o meno noti personaggi del cinema, dell’arte, del giornalismo ed altro ancora, senza contare ovviamente nutrite schiere di rappresentanti dell’industria, della finanza e dell’alta burocrazia.

La storia, così come i ricordi degli abitanti della fascinosa Perla del Gargano, non è del tutto chiara né perfettamente documentata su come e quando fosse iniziata la ‘belle epoque’ del turismo d’elite peschiciano, ma non ci si allontanerebbe tanto dal vero se si affermasse che il merito – o almeno uno dei più certi – fosse stato proprio della zuppa di Elia. E’ certo però che da quel momento – siamo agli inizi degli anni sessanta – sempre più motoscafi e poi i più moderni gommoni e infine barche a vela e veri e propri yacht d’alto bordo cominciarono ad approdare nella baia e pian piano a colonizzare il piccolo borgo arroccato sul mare. Ma andiamo con ordine.

In verità, un annetto circa prima che Elia Mastromatteo detto ‘Celestre’ decidesse di lasciare la pesca attiva per mettere su il suo ristorantino, e precisamente il 2 giugno 1962, Matteo Vescia detto ‘Mattiuccio’ e il suo compagno di merende Domenico ‘Mimì’ Martella pensarono bene di aprire un piccolo bar sulla spiaggia, un po’ per divertimento – per avere un luogo dove far baldoria con gli amici, insomma - un po’ per vedere come sarebbero andate le cose e se avesse potuto diventare un commercio vero e proprio. Era un bar con atmosfera casalinga, dove si vendevano solo birre, cedrate, gassose e amarene Fabbri – che non esistono più – e i primi clienti furono tre romani di passaggio. Solo in seguito misero una macchina per il caffè e il frigo con i gelati Motta, ma tutti erano ben felici di passare qualche momento di pace e allegria da “Mattiù e Mimì”, dopo un bel bagno al mare o una passeggiata sulla lunga spiaggia della baia.

Anche lì poche sedie e qualche arrangiato tavolino, e una tettoia in canne di bambù. Fino a quando non arrivò il pittore Alfredo Bortoluzzi (foto 2, autoritratto), che iniziò a dipingere i tavolini di legno che poi vennero esposti sulle pareti. Due di questi si possono ancora ammirare all’ingresso del Bar Ristorante Eden, che sorge nello stesso posto del mitico baretto dopo che nel 1981 questo venne comprato da Nicola e Matteo Vecere, genitori di Katia che insieme al marito Rocco gestisce adesso il locale dopo averlo completamente rinnovato.

Spesso la sera – come lo stesso Mimì ci fece vedere in alcune foto ingiallite – si svolgevano improvvisate feste in maschera, suonando chitarre e cantando allegramente fino a tarda notte. Qualcuno ci ha detto: “Com’era bello allora, quando ancora non si sentiva il chiasso brutale degli altoparlanti e dei dj dei campeggi e dei villaggi che hanno invaso la baia!”

Circa un anno dopo anche Elia, convinto dalla figlia Celestina, e nonostante la moglie non fosse molto d’accordo con le sue intenzioni, finalmente si decise a coronare il suo sogno. Ristrutturò alla meglio il vecchio capannone del pesce, comprò cucina, forno e tavolini e issò una bella insegna ad arco sulla strada: “Ristorante Elia”. Ingaggiò subito un pizzaiolo di Napoli che si presentò, chissà perché, con una valigia vuota, ma che divenne presto famoso fino a Vieste per la bontà della sua verace Margherita. E cominciarono ad arrivare i bei motoscafi con personaggi altolocati e famosi, prima dai dintorni, poi anche in automobile da Foggia, Roma, Napoli, Milano, con le loro donne e i loro amici, che pian piano si passarono la voce fino a fare del ristorantino un vero e proprio luogo di culto.

E si parla di gente mica da poco! Basti pensare all’attuale presidente del Coni Gianni Petrucci, all’architetto Ludovico Quaroni, alla giornalista Camilla Cederna, e poi il principe Pier Francesco di Bergolo, figlio di Iolanda di Savoia e marito di Marisa Allasio, Catherine e Agnes Spaak, Lucio Dalla, Valeria Ciangottini, Giorgio Bocca, gli architetti e designer Coppola e Bellini, Enzo Biagi, Alan Fletcher, Edoardo Sanguineti, Dino Buzzati, Allen Johns, Aldo Fabrizi, Johnny Dorelli, Jules Dassin, Marcello Mastroianni e il Mago Zurlì Gino Tortorella, oltre a Romano Conversano (foto 3) e al già citato Alfredo Bortoluzzi, che avevano addirittura acquistato l’uno il Castello e l’altro una villetta nella piana interna. “Io qui sto bene” diceva quest’ultimo. “Sto gran parte del giorno all’aria libera, dipingendo, guardando il mare e ascoltando i concerti degli usignoli.”

Tutto il bel mondo degli anni sessanta e della dolce vita si era dato appuntamento a Peschici, attratto dalla bellezza selvaggia del luogo e dalla mitica zuppa di Elia! Iniziarono così ad affittare e comprare case nel malandato ma caratteristico centro storico, con le sue stradine strette e dai nomi affascinanti: vico Lungo, via Ponente, via Le Ripe, Porta di basso e via Castello, via Malacera, via Sonnambula, Via Gioielli, Largo Buona Gente e via Malconsiglio.

C’era ancora la vecchia tabaccheria che aveva ispirato il romanzo dello scrittore francese Laurent Gaudè, “Gli Scorta”, saga di miti e amori contrastati di una “famiglia che è spesso fuori dalla legge, ma che possiede anche una nobiltà vera”. Con i suoi personaggi duri e mistici al tempo stesso, una stirpe di un amaro e fascinoso Sud, originata “dall’unione violenta di Luciano Mascalone e Immacolata Cannito da cui nascerà Rocco, bastardo, assassino e stupratore come suo padre, che terrorizzerà il paese prima di sposarsi e avere tre figli”. Mitologica lotta di una genìa di ‘mangiatori di sole’ contro la perenne maledizione della propria terra.

La sera passeggiavano per il paese con i loro vestiti eleganti e quei particolari atteggiamenti un po’ demodé, sedendosi ai tavolini del primo bar da Rocco e Peppino, dove adesso c’è il Ristorante Pizzeria “Da Peppino” col suo fascinoso giardino interno. Ci stavano bene lì, perché non erano ancora assediati dai giornalisti e dalle sgradite clientele, come troppo spesso accadeva a Capri, a Positano o a Portofino. Qui invece si sentivano liberi e tranquilli, si scambiavano visite e inviti a cena tra le ville e gli appartamentini affittati, andavano al mare tra le mille spiaggette dei dintorni e potevano anche permettersi di levarsi il costume e fare il bagno nudi senza che nessuno li importunasse. Era un piccolo paradiso, quello, e loro facevano di tutto per tenerlo nascosto, per lasciarlo così com’era, genuino e un po’ fuori dal mondo. Conversano e Bortoluzzi dipingevano indisturbati i loro quadri e Lucio Dalla veniva a fermarsi per lunghi giorni dalla sua “seconda mamma”, Filomena ‘Mamainë’ Salcuni (foto 4), proprietaria del ristorante-pensione “La pescatrice”, dove componeva le sue canzoni senza che quasi nessuno lo vedesse.

“Era l’autunno del 1969 e lui arrivò” ricorda lei commossa “con l’amico Ron in barca, fermandosi qui a causa del brutto tempo. A un certo punto sentii bussare alla porta e mi trovai davanti due uomini trasandati, incappucciati e infreddoliti che chiedevano ospitalità. Entrarono e videro la tavola apparecchiata, con una bottiglia di vino rosso. E subito Lucio cominciò a buttare giù le prime strofe della sua ‘4 marzo 1943’. E sì” continua ‘Mamainë’ con le lacrime agli occhi, “perché quella canzone nacque proprio qui, davanti alla mia tavola, col camino acceso e il temporale che continuava a far rumore. Da allora questa è stata, ed è rimasta per lunghi anni, la sua dimora, il suo ritrovo dove rifugiarsi tra una fatica e l’altra, il posto migliore dove, affacciandosi al balcone, poteva sognare guardando l’alba e il tramonto.”

Conversano invece dipingeva e invitava belle donne, dopo essersi separato dalla sua prima amata moglie. “Ma il suo quadro forse più bello” ricorda il suo amico giornalista Piero Giannini, che recentemente ha curato una sua retrospettiva, “fu quello in cui ritrasse Antonietta Caruso, una splendida fanciulla quasi nuda e sudata, con il bimbo nudo in braccio, affacciata con lo sguardo perso e sognante alla finestra. Lo intitolò ‘La mamma degli odori’ (foto 5). Antonietta venne poi uccisa nel dicembre del 1965 dal suo amante e padre del bambino, forse per gelosia, forse perché era troppo bella, forse perché era così che doveva finire”. Il grande pittore restò a Peschici per molti anni, fino a quando vendette il castello ai suoi attuali proprietari e tornò a Milano nel 1972.

Andrea Pazienza, meglio conosciuto come ‘Paz’, invece, era nato a San Menaio e a Peschici dunque era di casa, ma è rimasta nella storia la sua passeggiata in un giorno di maggio del 1975 per le stradine del paese e immortalata dalle cinquanta foto dell’amico Gino Nardella, scrittore e cabarettista di fama, che lo ritraggono intento a misurare con un metro da muratore portoni, muri ed angoli, asinelli (foto 6) e calze stese al sole (foto 7), vecchie donne al lavoro o pescatori sul porto, e lui stesso appeso alla croce come Cristo, quasi presagio di una fine drammatica e prematura. Il lavoro fotografico era stato eseguito dai due amici per un esame di Tecniche della fotografia con il professor Zannier al Dams di Bologna, previsto per il 5 giugno successivo. Qualche anno dopo la sua morte, Teresa Maria Rauzino recensirà sul “Corriere del Mezzogiorno” la mostra di Gino Nardella “Uno ogni sacco d’anni”, tenutasi ad Apricena e poi in altre città italiane.

Un giorno due amiche di Verona, Zoe e Gianna, presero il traghetto dalle isole Tremiti a Rodi Garganico ma un’improvvisa tempesta costrinse la nave a fermarsi al largo della rada. Scesero a terra soccorse da una barca di pescatori e furono accompagnate a dorso d’asino su per la mulattiera fino all’Hotel Peschici, fino ad allora l’unico della zona. Rimasero così affascinate da quell’avventura e dal caratteristico paesino con la sua spiaggia incontaminata, le sue grotte e gli uliveti a perdita d’occhio che se ne restarono lì per un bel po’ di tempo, ripromettendosi di tornare. Cosa che da quel giorno in poi fecero tutti gli anni, prendendo il trenino che da San Severo porta a Calenella per sistemarsi una volta per tutte in una tenda, poi divenuta casetta, al villaggio Moresco, dove tuttora continuano a trascorrere felicemente i mesi estivi.

Nel frattempo – giorni ed anni si confondono nei ricordi dei nostalgici testimoni, come il pittore Luigi Bettini, artista della scena milanese che aveva sposato la figlia Celestina – da Elia era arrivato il principe di Bergolo, che aveva affittato, su consiglio dell’amico Elia Falcone, una villa vicino all’attuale Hotel “Ti mi ama”. L’altolocato personaggio si presentò un giorno al ristorante mantenendo l’incognito e per un’intera settimana, insieme alla sua elegante e colorata corte, si fermò a mangiare a pranzo e a cena, divertendosi ogni volta a curiosare in cucina, tra i fornelli e nel retrobottega, suscitando l’imbarazzo ed anche il fastidio di Elia, della moglie e delle donne lavoranti che non capivano cosa volesse e che stava facendo. Anzi, dato che nel frattempo ancora non si era deciso a pagare il conto, cominciarono a sospettare che fosse un imbroglione e uno scroccone patentato. Ma alla fine dovettero ricredersi perché, quando andò via definitivamente, pagò l’intero ammontare senza battere ciglio e regalando una mancia addirittura doppia del conto stesso, complimentandosi della squisita qualità della cucina e della gentilezza dimostrata dai proprietari.

E’ certo invece che il 20 luglio del 1964, giorno del patrono Sant’Elia, mentre tutta la famiglia Mastromatteo si stava accingendo a festeggiare con un grande pranzo il baffuto capostipite, si presentarono all’improvviso due coppie di ricchi imprenditori milanesi, attirati lì dalla fama del ristorante e della sua mitica zuppa di pesce. Elia e i suoi restarono sulle prime assai perplessi, perché avevano deciso di non accettare clienti per restarsene tra loro in intimità, e dissero ai malcapitati ospiti che quel giorno il ristorante era chiuso. Poi, vista la loro delusione, il vecchio pescatore decise di invitare anche loro come fossero dei parenti acquisiti. Facile immaginarsi la loro gioia nel partecipare allo squisito banchetto in onore di Elia, venendo trattati come familiari e divertendosi con tutti gli altri quasi stessero a casa loro. Quando poi la festa fu finita chiesero di pagare ma il buon ‘Celestre’ rifiutò quasi offeso esclamando: “Ma non se ne parla nemmeno! Oggi è il mio onomastico e sono stato lieto e onorato di avervi avuto a tavola con noi”. Inutile dire che, dopo la bella e inaspettata avventura, gli agiati turisti tornarono altre volte e pubblicizzarono ai loro amici la fantastica trattoria sul mare e i loro splendidi proprietari. Inviti a pranzo così non capitano mica tutti i giorni!

Tra i tanti clienti abituali è da ricordare senz’altro la giornalista Camilla Cederna, “donna di gran classe”, che si fermò per una lunga estate, andando a mangiare quasi sempre da loro. Se ne stava seduta in un tavolino in disparte a guardare le barche che di sera portavano il pesce appena pescato e a scrivere i suoi articoli, uno dei quali, interamente dedicato al ristorante ‘da Elia’, fu poi pubblicato dal Corriere della Sera.



Altro grande amico, che ebbe una storia lunga e alla fine travagliata con Peschici, fu il famoso designer inglese Alan Fletcher. Si presentò un giorno con la sua faccia da delinquente, con una vistosa cicatrice e una canotta stracciata. “Sembrava un poveraccio poco raccomandabile” racconta ancora oggi Bettini. “Poi scoprimmo che era un personaggio famoso, uno dei più grandi artisti dell’epoca. Ricordo ancora che era un appassionato di triglie alla livornese. In seguito rimanemmo legati a lui da una profonda amicizia. Più volte siamo stati ospiti a casa sua a Londra». Anche lui comprò una casa vicino alla chiesa di Sant’Elia, con una bellissima vista sul mare, dove veniva anche d’inverno insieme alla figlia fotografa. Un giorno però, tornando dopo un lungo viaggio per il mondo, trovò che avevano costruito abusivamente un piano rialzato proprio davanti a lui che gli avrebbe impedito per sempre di vedere la splendida vista della baia. Rimase talmente deluso e offeso da quest’atto mafioso e criminale che vendette subito la casa e non tornò più a Peschici.

Così in realtà accadde a molti altri di questi personaggi che, per un motivo od un altro, si disaffezionarono dal paese quando questo divenne pian piano preda di sconsiderati costruttori e pseudo-operatori turistici che, senza alcun rispetto per la storia e l’atmosfera del posto, cominciarono ad occupare la piana davanti alla spiaggia con campeggi, villaggi e stabilimenti di ogni tipo che finirono ben presto per trasformare un luogo d’élite in un affollato e pacchiano ‘vacanzificio’ adatto ormai solo ad un turismo di massa. Almeno questa è l’opinione di molti. A noi piace invece pensare, fantasticando, a tutto quello che c’era una volta, alle atmosfere rarefatte, ai personaggi di grido, alle odalische di Conversano e alle notti bianche ai localini in pineta, al Caffè Barocco e al ristorante Da Peppino, o al Maxy Club, “ritrovo dell’hight life, il regno notturno dell’età del censo e del denaro, dove si davano convegno la gioventù dorata e semidorata, ragazze in compagnia di sessantenni e sessantenni in compagnia di ragazzi”.

E naturalmente ai tramonti sul molo e alle aurore a San Nicola. E già, perché a Peschici si possono godere tutt’e due, caso più unico che raro, così come accade a volte di scoprire in lontananza – quando l’aria è limpida e tersa – addirittura la Maiella, il Gran Sasso e il Monte Conero. Provare per credere! Ma soprattutto, e prima di tutto, al ristorante di Elia e alla sua zuppa favolosa, che valse alla ‘perla del Gargano’ il lancio come luogo ideale dell’anima e degli artisti, oltre che centro turistico ambito dai ‘grandi viaggiatori’.

Come quando, all’inizio dei tempi, per la prima volta il Bettini, giunto lì quasi per caso insieme ai suoi amici subacquei, intravide da lontano la spiaggia con il piccolo molo appena abbozzato che facevano quasi da base al vecchio diroccato paesello attaccato alla rupe a strapiombo sul mare e pensò subito – chissà perché – alla descrizione di Jim Wormold, tragicomico protagonista di “Il nostro agente all’Avana” di Graham Green. “Aveva camminato per tutto il giorno ed era molto stanco: trovò un posticino asciutto e sedette. Quando lampeggiava, poteva vedere la radura; tutt'intorno si udiva il rumore dolce dell'acqua sgocciolante. Era quasi come la pace…”

Francesco Paolo Tanzj


Foto 8 - Elia Mastromatteo
Foto 9 - Il "ristorante"
Foto 10 - Mimì e Mattiucccio, i primi clienti

 Redazione

 

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