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01/05/2013

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UN RAGAZZO CORAGGIOSO

Clicca per Ingrandire Era il 1948, uno degli anni duri del dopoguerra. Viveva, in un paesino di mare della costa garganica, una piccola famiglia: un papà macellaio, una moglie casalinga (che, per aiutare la baracca, quando poteva, si rimboccava le maniche ed andava a raccogliere olive od agrumi e perfino a strappare l’erba), un figlio di circa dieci anni ed una figlia di due anni più giovane. Il papà, oltre a gestire la macelleria, era proprietario di una metà di un piccolo gregge, appartenente, per l’altra metà, ad un suo fratello più giovane. Le pecore, affidate ad un pastore, una notte furono rubate (come si sarebbe appurato dopo, da alcuni pastori di un vicino paese dell’entroterra).

I due fratelli, successivamente contattati da intermediari per il riscatto del bestiame, per orgoglio rifiutarono e, chiuse le macellerie (anche il fratello minore era macellaio in proprio), si prodigarono per il ritrovamento del loro bene (il successo, cioè il ritrovamento del gregge sarebbe avvenuto solo dopo un anno e sarebbe costato più del riscatto richiesto, cioè quasi il doppio del loro valore reale!). Ogni giorno c’erano viaggi, ogni giorno c’erano ricerche, a piedi, in auto da noleggio o con altri mezzi di fortuna, ma sempre accompagnati dai loro cani (tre bianchi pastori abruzzesi, che erano stati drogati la notte del furto), ogni giorno c’erano spese (anche per pagare informazioni), che andavano ad assottigliare i capitali dei due fratelli. Cosa che non poteva consentire loro, in prossimità delle festività di Natale (poi anche della Pasqua successiva), di provvedere all’acquisto di bestie da macello.

Fu proprio prima del Natale del ’48 che il maggiore dei due fratelli, un po’ per andare incontro alle richieste dei più affezionati clienti, un po’ per risollevare le proprie finanze, pensò di provvedersi di detto bestiame, più precisamente di agnelli. Ma, non disponendo di sufficienti contanti, non sapeva come risolvere il problema. Alla fine decise di rivolgersi a sua suocera che, giusto per caso, viveva ed esercitava la sua professione di piccola commerciante, proprio nel paese dei ladri del gregge. Ma, ripeto, si trattava di un puro caso. Impossibilitato, però, a recarsi personalmente dalla donna, pensò bene di affidare l’incarico al figliolo. Questo ragazzo non era nuovo all’assunzione di incarichi di fiducia: lo aveva fatto tante altre volte, sia presso la nonna materna, per danaro contante, sia per tante altre ragioni, senza considerare che lo aiutava materialmente al mattatoio, lo aiutava nell’assistere le bestie da macello acquistate ed in attesa di essere macellate. Le conduceva al pascolo o si procurava frasche che portava alla stalla per rifocillarle.

Una volta, giusto per far capire il valore del ragazzo, anche se questo ci porta lievemente fuori dalla storia principale, ecco cosa era successo. Uscito di scuola, pranzato e fatti i compiti, fu mandato alla stalla per farne uscire un gruppo di capre (in tutto sei) e per menarle al pascolo. In realtà, per raggiungere la campagna, doveva attraversare, sia pure marginalmente, una parte del paesino e percorrere un tratto di strada di circa cento metri inclusa tra due muretti: quello di sinistra, più alto, che confinava con un uliveto, quello di destra, a strapiombo, che confinava con un agrumeto. Il muro di destra, di circa un metro di altezza e di circa quaranta centimetri di larghezza, era costruito sopra una sorta di muraglione di contenimento profondo non meno di quattro metri. Una capra (si dice che le capre sono l’incarnazione del diavolo), spaventata dal passaggio di una delle rare auto di quei tempi, prima saltò sul muro, poi giù nel vuoto, venendo subito imitata da un’altra compagna del gruppetto.

Il ragazzo non sapeva davvero cosa fare: recuperare le capre saltate giù (atterrate come gatti sulle quattro zampe senza nulla rimetterci) oppure badare a quelle rimaste sulla strada? Non rischiava di perderne una parte? Cos’avrebbe detto a suo padre, come avrebbe giustificato la cosa? C’era una strada, l’ultima del paese, prima che si giungesse a quel posto: una strada che serviva proprio quella campagna. Pensò bene di tornare indietro con le quattro capre rimastegli, di condurle nella strada e, lì lasciate, sia pure incustodite, penetrare all’interno della recinzione e recuperare le “fuggitive”. Detto, fatto. Ma non ci volle poco per recuperare quelle diavolacce, attratte, peraltro, dall’erbetta fresca crescente sotto le piante dei limoni e delle arance di quel fondo! Ad ogni modo, riuscì ad afferrarne una per un corno e, dopo tanto tira tira, riuscì nell’impresa, pur se in preda alla paura di venire sorpreso dal proprietario dell’agrumeto e di rimetterci chissà cosa.

Riprendendo il filo della storia principale, il papà disse a suo figlio, la sera prima della ‘missione’: “Figlio mio, ho bisogno di te. Tu sai che in questi giorni non posso muovermi dal paese, però io avrei bisogno del solito aiuto di tua nonna. Perciò, domani mattina, devi prendere il treno ed andare a trovarla. Solo che, questa volta, ho bisogno di più soldi. Le devi dire che mi servono quarantamila lire. Per non dare nell’occhio della gente, farai sembrare che sia una delle tue solite visite, perciò non tornerai col primo treno, ma le farai compagnia per il pranzo, poi prenderai quello del pomeriggio. E mi raccomando, nascondi bene i soldi!”. “Va bene, papà” rispose il figliolo. E la mattina seguente, con il cielo ancora buio, fu svegliato, munito del danaro sufficiente per l’acquisto del biglietto di andata e ritorno ed accomiatato.

Il ragazzo, com’era suo solito, giunto dalla nonna, che era vedova e viveva sola, fece colazione, si trattenne un po’ nel negozio, poi andò a trovare uno zio ciabattino che lo incantava con la sua arte. Questo zio non era, infatti, un semplice ciabattino, ma era un vero creatore di calzature: ne faceva di tutte le misure, di tante fogge, basse, alte, estive, invernali, stivali, per maschi, per femmine, per ragazzi e perfino per bimbi. Era un vero fenomeno! Rimasto lì incantato fino all’ora di pranzo, tornava dalla nonna e vi rimaneva per un certo tempo dopo il pranzo stesso. Poi raggiungeva casa dello zio ciabattino, per giocare con un cugino di un anno appena più anziano. Anche quel giorno osservò le sue abitudini e, un’ora circa prima del passaggio del treno, il ragazzo tornò dalla nonna, con la quale aveva già parlato della sua ‘missione’.

Purtroppo, però, la nonna non era ancora pronta perché la somma era troppo grossa pure per lei e lei stessa aspettava che un’amica le portasse la parte mancante per arrivare alla cifra richiesta. Così, invece di partire prima che fosse buio, dovette partire con le tenebre, con l’ultimo treno. Per raggiungere la stazione bisognava percorrere oltre un chilometro fuori l’abitato, per una strada sterrata non illuminata, incassata tra due muretti a secco, confini dei relativi uliveti di destra e di sinistra. Il ragazzo, con ben quaranta lenzuola (così le chiamavano le grosse mille lire dell’epoca), custodite piegate nelle proprie mutande, affrontò la ‘traversata’. A circa metà strada, ebbe uno strano sentore: qualcuno lo stava seguendo. Che fare? Solo non cadere in preda alla paura! Così non affrettò il passo, non si voltò indietro ma cercò di rimanere calmo e di fingere indifferenza. Dopo qualche diecina di metri fu raggiunto.

“Dove vai?” gli chiese lo sconosciuto, parlando in dialetto del luogo.
“A prendere il treno” rispose il ragazzo.
“E dove vai?” incalzò l’individuo.
“A casa mia”, fu pronto a dire il giovane, senza specificare dove quella casa si trovasse.
“E soldi ne hai? Cosa ci tieni in quella sacchetta?”.
“Un poco di pasta, un poco di farina, un poco di zucchero”.
“E non ci sta niente più?”
“Niente più!”
“E’ possibile che non hai soldi? Dove sei stato? Forse da qualche zio o dai nonni? Ed è possibile che non ti hanno dato niente?”
“Perché, pasta farina e zucchero, di questi tempi, tu li chiami niente? Di questi tempi! Lo vuoi tu, questo niente?”
“E’ possibile che non hai soldi nelle tasche?”
“Ho il biglietto per tornare a casa e qualche caramella, non è molto?”
“Fammi vedere, svuota tutto, metti fuori quello che hai!”.

Ed il ragazzo, con pazienza da vecchio, con sangue freddo, più freddo dei più incalliti criminali, svuotò le tasche, mise fuori il biglietto e le caramelle e disse: “Sei contento, adesso?”
“Dammi la sacchetta!”
“Non mi pare una bella cosa, ma tienila pure!”, obbedì il ragazzo ed aggiunse: “Forse i tuoi figli hanno più fame di me” e, consegnato il ‘malloppo’, proseguì, più leggero, non soltanto materialmente, ma anche nello spirito, verso la stazione. Forse, pur perdendo la coda come fanno le lucertole per sfuggire alla cattura ed alla morte, salvando il suo ‘tesoro’, aveva anche fatto un’opera buona. Quel signore poteva ben essere un delinquente, ma sicuramente doveva avere fame anche lui!

Alla stazione d’arrivo al paesello trovò suo padre ad aspettarlo. Era stato molto in pena ma, sapendo che a quei tempi non c’era la possibilità di telefonare, non rimproverò il figlio. Il quale, messa una mano all’interno dei pantaloni, cavò fuori, con intimo e ben celato orgoglio, l’involto che, a modo suo, aveva saputo difendere e salvare. Il padre, un po’ per gratitudine un po’ per affetto, lo abbracciò, ma il ragazzo non disse, né avrebbe mai detto, una sola parola di quanto capitatogli. Gli pareva che il parlarne potesse equivalere ad un atto liberatorio, all’ammissione, in pratica, di aver avuto paura. E lui si sentiva, dentro, un ragazzo coraggioso!

Enzo Campobasso



 Redazione

 

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