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21/04/2013

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KÀLENA: SOGNO DI UNA NOTTE D"AUTUNNO

Clicca per Ingrandire Secondo appuntamento della ‘trilogia’ che uno dei nostri collaboratori ha voluto dedicare alla storia oggi bistrattata della millenaria Abazia di Calena, in agro di Peschici, con l’obiettivo di salvarne almeno quanto ne resta e risvegliare le coscienze. Prima parte al link http://www.puntodistella.it/news.asp?id=6302/.

***

«Che fascino!… Che atmosfera, eh Sinè?»
«Sì, sì… ‘Sto posto quasi quasi ti fa venire voglia di fare la Madre Badessa!» Sorridiamo.


Menuccia e io, il viso proteso fra le sbarre del cancello di ferro, percorriamo il cortile dell’Abazia con occhi curiosi. Di là dal cancello, tenuto serrato da una grossa catena con lucchettone, lo spiazzaletto, delimitato dalle pareti di due Chiese diroccate, dell’antico cenobio e dei fondachi, si avvolge quieto intorno al pozzo e all’abbeveratoio. Il sole del pomeriggio di settembre, calando verso il mare nella direzione di Monte Pucci, ammanta di pastelli rosati le pareti delle Chiese e parte delle pareti del cenobio. Il silenzio è rotto a tratti dal frinire delle cicale che scende dalle pinete. Siamo, Menuccia e io, sospese come in un sogno.

Si ode un cigolio. Si schiude una porta nella parete del cenobio. Il monaco Elìas esce, barbuto e capelluto, il volto brunito, una tunica scura cenciosa lunga fino ai piedi scalzi, una croce di legno al collo. Tre altri monaci - Basilèios, Paconìdes e Nèilos - lo seguono, barbuti e capelluti, i volti bruniti, tuniche scure cenciose lunghe fino ai piedi scalzi, croci di legno al collo. I quattro procedono leggeri, come senza peso, verso la vera del pozzo. Basilèios armeggia col secchio, lo lascia cadere nel ventre del pozzo, sostenendolo con la cima. Si avverte il tonfo nell’acqua, lo sciacquio, il cigolare della carrucola: il secchio risale.

«L’acqua! Eccola, l’acqua!» esclama Basilèios.
«L’acqua, l’acqua!» fanno eco gli altri monaci. S’inginocchiano intorno al pozzo, le braccia alzate al cielo, gli occhi rivolti al cielo.
Elìas fa il segno di benedizione verso l’acqua. I monaci pregano in coro: «“ Pater noster, qui es in cœlis… ”».

Elìas si volta verso di noi. Ci sorride, come se ci attendesse. Si alza, si dirige verso di noi leggero. Fa un gesto con la mano: il lucchettone si apre, la catena cade in terra, il cancello si apre. Elìas con un cenno ci invita a entrare nel cortile. «Venite, Sòrores (sorelle; ndr), venite in pace!» Menuccia si avvia senza indugi. Seguiamo Elìas oltre il cancello.

«Donne ammesse nell’Abazia? Quale onore! » Menuccia si rivolge a Elìas con aria interrogativa.
«Tu, Menuccia, e tu, Sinella, voi due, Sòrores, state cercando di fare molto per l’Abazia, per le sue Chiese.»
(“Lo sa? Sa di noi? Ci conosce? ” mi chiedo sorpresa. Menuccia sembra tranquilla.)
«Andiamo, andiamo a vederle le Chiese.» Elias ci precede. Basilèios, Paconìdes e Nèilos ci seguono.

Proseguiamo con cautela in silenzio. I resti dei pilastri e delle cupole consentono di riconoscere la pianta a tre navate della ‘Chiesa antica’, nella quale s’incunea la struttura della ‘Chiesa nuova’, anch’essa a tre navate, una delle quali è completamente scoperchiata. Un solaio è presumibilmente crollato, l’abside appare sul punto di crollare, travi appaiono pericolanti, conci e pietre lavorate sono sparsi in terra dappertutto. Le teorie di segni incisi sui conci di archi e pilastri evocano un’atmosfera di misticità esoterica. Attrezzi agricoli sono ammucchiati nella ‘Chiesa antica’, balle di fieno sono accatastate nella ‘Chiesa nuova’.

«Ruderi, ruderi… Questi sembrano ruderi» mormora Menuccia sconsolata.

Un singulto fuoriesce dal petto di Nèilos, il monaco giovinetto. Nèilos fugge verso il cortile. Basilèios lo segue.

«Nèilos ha il cuore tenero dei giovani» spiega Elìas. «Nèilos non riesce a comprendere, non riesce ancora a capacitarsi delle tante, delle infinite fragilità dell’animo umano.»
«Cosa intendi, Frater?» gli chiede Menuccia.
«Cosa intendo? Voi lo sapete, Sòrores! L’Abazia di Kalena, che la nostra fede guidando le nostre povere mani ci ha concesso di iniziare a erigere, è arrivata a risplendere come faro riconosciuto di civiltà e di cultura.»
«Certo! Certo che sappiamo.»
«E ora? Ora, ecco, è decadenza. Certamente non per volere divino, né per eventi casuali incontrollabili, ma - ahinoi! - per la fragilità dell’Uomo.»

Il refettorio è una camera lunga e stretta con le pareti in pietra bianca. Un’immagine lignea della Madonna di Kalena osserva la scena dalla parete sul fondo. Una croce lignea si staglia nel biancore di una parete lunga. Il tavolo, in legno grezzo come i panchetti che lo circondano, è anch’esso lungo e stretto.

«Siamo stati in tanti qui!» Paconìdes legge la curiosità nei nostri occhi. «Trenta monaci, quaranta! Al tempo di Federico! E anche nel seguito!»
«Ma voi, Fratres, vivete qui?» chiedo, rischiando di apparire sciocca. «Sembra che voi viviate qui da sempre!»
«Noi, Soror, siamo sempre qui; ma non viviamo qui» interviene Elìas. «Ci abbiamo vissuto qui, e abbiamo eretto la prima cappellina con le nostre mani, sulle strade dei pellegrini di Cristo. Poi, da quando la nostra vita terrena è terminata, viviamo fra le stelle col Padre nostro, che è il Padre di tutti.»
«Fra le stelle?» Menuccia lo guarda turbata. «Vivete fra le stelle?»
«Sì, Soror, fra le stelle! Nessuno, sapete, muore mai. Chi non vive più sulla Terra, continua a vivere fra le stelle.»
«Ma voi, Fratres, sembra che viviate sempre qui! Sapete tutto di qui!» osservo.
«Sappiamo, sì! Non la lasciamo mai sola l’Abazia nostra; mai! Da quando abbiamo disposto la prima pietra, da sempre! E Paconìdes prende nota di tutto, e ricorda tutto.»

Nèilos appoggia sul tavolo un piatto di legno: «Ecco: pane di frumento, cipolle, e un’ampollina d’olio!»
«Racconta, racconta, Frater!» Menuccia e io chiediamo in coro, rivolte a Paconìdes.
«Cosa volete che racconti, Sòrores?» Paconìdes si schernisce. «Della storia del mondo durante la vita di Kalena? Delle lotte che fanno seguito alla morte di Carlo Magno? Dei pellegrini di Cristo nel medioevo, delle crociate? Dello splendore di Federico, stupor mundi (stupore del mondo, appellativo di Federico II di Svevia; nda)? Dei drammi degli scismi vissuti dalla comunità di Cristo? Dei drammi delle guerre, delle tante guerre, delle troppe guerre? Delle grandi illusioni dell’uomo, dalla scoperta dell’America, alla conquista della Luna…?»
«Kalena tutto questo ha vissuto?» Menuccia sembra perplessa.
«Sì, sì, Soror! Tutto questo, mentre qui si alternavano, accapigliandosi, longobardi, e bizantini, e poi normanni, e svevi, e angioini, e aragonesi, e spagnoli, e francesi, e…»
«E italiani pure, no?» s’inserisce Menuccia. «Quante popolazioni, mio Dio! Quante culture, quante lotte fra gli uomini, quante lotte fratricide!»
«Tante lotte, sì!» conferma Paconìdes. «Noi non ci pensavamo davvero quando, umili Fratres Basiliani, abbiamo scelto questo luogo per erigere la nostra cappellina, il sacrario del nostro cenobio. La valle era tutta un oliveto allora, un oliveto di alberi possenti, maestosi. I due promontori che la fiancheggiano, quello dove ora c’è Peschici e quello dove ora c’è la Torre di Monte Pucci, erano coperti di pinete rigogliose. Le spiagge di rena finissima erano accarezzate da un’ondina dolce, sussurrante. L’aria odorava di resina e di lentischio. Friniti di cicale si alternavano a friniti di grilli. Stormi di anatre si alternavano a stormi di aironi…»

Sgranocchiamo il pane intanto, condito con qualche goccia d’olio, e la cipolla rossa. Beviamo qualche sorso d’acqua, chinandoci sul secchio e suggendo.

«Un paradiso terrestre!» Menuccia è estasiata. «E uomini, ce n’erano?»
«Pochi pochi: un paio di famiglie di contadini, dalla parte verso il mare. E qualche eremita, che trovava rifugio nelle grotte che si aprono lungo i promontori.»
«Già, non c’era neppure Peschici allora!»
«Non c’era Peschici, e non c’era Vico, e Rodi era un villaggetto… Gli Schiavoni a Peschici e a Vico gli hanno dato vita un centinaio di anni dopo, quando noi eravamo già fra le stelle. Forse, se Kalena qui non ci fosse stata, neppure Peschici e Vico starebbero nei luoghi nei quali stanno adesso. Perché a Kalena è capitato di crescere, di crescere tanto, in poco tempo: ha stretto accordi con l’Abazia di Santa Maria di Tremiti, è diventata lei stessa un’abazia, ha assommato donazioni e lasciti di fedeli, ha ottenuto riconoscimenti da Papi e Imperatori… Così è riuscita a sopravvivere agli assalti dispensati dalla storia: alle incursioni dei Veneziani, alla peste, agli eccidi dei Turchi…»
«E ora? Perché tanto dissesto? Perché tanta desolazione?»
«Per l’avidità degli uomini, per la loro cupidigia!» urla Nèilos, chinando il capo sul tavolo fra le braccia, cercando di mascherare il pianto. «Ah, gli uomini! Quanti peccatori fra gli uomini! Destinati alle fiamme eterne!»

Basilèios si china su Nèilos, ponendogli una mano sulla spalla.

«Eh sì, l’avidità, la cupidigia degli uomini!» riflette Elìas. «Voi lo sapete bene di quali progetti su Kalena qualcuno sta parlando adesso!»
«Di progetti… di restauro?» azzardo.
«Di restauro?! Magari! Di ristrutturazioni, altro che di restauri! L’Abazia di Kalena, la nostra Abazia, l’abazia di tanti Fratelli Santi, Basiliani, Benedettini, Cistercensi, Lateranensi, trasformata in casa vacanze, con le Chiese tramutate in sale di ricevimento e conferenze!» La voce di Elìas si fa triste. «Ciò che ha resistito a incursioni, epidemie, eccidi, fa fatica a resistere all’avidità, alla cupidigia degli uomini! Al delirio del possesso, che pure è fugace! Al massacro dei diritti dell’altro, degli altri! Alla superficialità, al timore, alla viltà di chi è tenuto a salvaguardare i diritti di tutti!»

Il cielo terso della notte di settembre si anima di brillanti: Vega, Deneb e Altair rappresentano orgogliose il triangolo estivo. La Via Lattea, oltre Deneb e Altair, dispiega la sua corte mirabile, misteriosa, mistica. Dall’oliveto giungono fruscii di fronde e litanie di monaci lontane. Elìas ci precede verso il cancello. Menuccia e io lo varchiamo. A un gesto di Elìas, le due ante del cancello si accostano, la catena si riavvolge intorno alle sbarre, il lucchettone si chiude.

«Ite, Sòrores, et pax vobiscum!» (andate, Sorelle, e la pace sia con voi; ndr). Elìas ci saluta, sorridendoci da oltre le barre. Ha poi un sussulto, infila una mano nella tasca della tunica, estrae un foglietto sgualcito, ce lo porge. «E questo? Questo lo dimenticate?»
«Questo? Cos’è questo?» chiedo, prendendo il foglietto tra le mani. Do uno sguardo al disegno. «Ma questo non è…?»

* * * * *

Un suono improvviso, petulante, si sovrappone alle litanie dei monaci. Strozzo il cellulare sotto il cuscino, balzo a sedere sul letto. “Maledetta sveglia! Menuccia, Elìas, candido Nèilos, dove siete? … Oh, un sogno! Che sogno!” Cerco le pantofole a tentoni. Il foglio sulla storia di Kalena, che ieri mi ha preso per tutta la giornata, è lì sul comodino (foto del titolo; ndr). “Eccolo! Eccolo il foglio di Elìas!”

Ciabatto verso la finestra, la spalanco. “Che bello il sole che si alza! e il mare che sfavilla!” Alzo le braccia al cielo, stiracchiandomi. “Oggi il foglio io lo porto a scuola, ne parlo coi ragazzi. E magari gli parlo pure di Elìas e degli altri. E magari pure - perché no? - di qualche fragilità dell’Uomo…”

Paolo Labombarda


NB. Prima parte: puntodistella.it/news.asp?id=6302

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