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19/03/2013

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I FALÒ DI SAN GIUSEPPE

Clicca per Ingrandire Il 19 marzo coincide con l’equinozio di primavera. Già nell’era pagana si venerava questa data per dire addio all’inverno e dare il benvenuto alla nuova stagione. Il falò (foto del titolo, la "fanojia" a Peschici; ndr) è stato l’artefice nei secoli come unico conduttore delle diverse culture religiose. I fuochi di purificazione servono a bruciare tutte le potenze negative, riscaldare il cuore della terra e far germogliare la natura per riceverne raccolti abbondanti. Nel paese di Vico del Gargano la Confraternita della chiesa dove è posta la statua di San Giuseppe mantiene viva questa antica tradizione, racimola rami di albero d’ulivo appena potati e rami di vitigni da ardere nel piazzale. Le famiglie, un tempo, preparavano i dolci tradizionali e le orecchiette con le noci. I frutti venivano selezionati in autunno, oggetto di desiderio dei ragazzi durante il lungo inverno ma che nessuno osava toccare, per devozione e rispetto verso il Santo.

A San Nicandro Garganico si effettua la scampagnata alla collina dove in passato è stata costruita la chiesetta che per l’occasione viene adornata di fiori e di violette. I festanti, dopo la funzione religiosa, raccolgono la legna secca da ardere nel piazzale per fare la carne e le salsicce alla brace. La collina offre un panorama incantevole da dove si possono ammirare mare, isole e pantani e scrutare ogni angolo del paese. La giornata viene allietata dai cori di “quel mazzolin di fiori che vien dalla montagna” e i profumi delle frittate, del caciocavallo, dei lampascioni al forno, dei taralli e dei peperati si confondono con l’aria novella della Primavera.

Anche nel paese di San Giovanni Rotondo il rito si rinnova col detto “fanojë”, una vera competizione dove una giuria assegna i premi ai migliori falò per l’estro della fattezza. Tempo fa si allestivano i falò in ogni rione e il mulino della famiglia Massa metteva a disposizione una quantità di olio per friggere le pizzette (“zeppole”) che le massaie dall’alto offrivano dentro un cestello di vimini, calato con una cordicella, alla popolazione disposta sulle gradinate. I boscaioli scendevano nel paese con cavalli, muli e asinelli dai dorsi carichi di cepponi e carbonella. I ragazzi andavano loro incontro e li seguivano in corteo provocando la protesta degli asini che reagivano con ragli assordanti.

Confezionare il falò era come costruire un castello, ogni movimento veniva seguito dagli sguardi dei fanciulli curiosi e avidi di apprendere i trucchi di come posizionare la legna in modo da facilitarne l’accensione serale e rendere la fiamma duratura. Il fuoco rappresentava l’auspicio dell’abbondanza e i giovani, per mostrare muscoli e loro abilità alle ragazze, vi saltavano sopra strisciando la legna per causare le scintille che salivano verso l’alto col significato di sprigionare le anime dei defunti e liberarle nel cielo. Antichi strumenti agricoli venivano esposti nei vari rioni come simboli della vecchia cultura contadina. I partecipanti si cimentavano in vere gare: tiro alla fune, corsa nei sacchi e palo della cuccagna. Quest’ultima prova consisteva nel conficcare un palo robusto nella terra, alto cinque metri circa, unto di grasso che esibiva in cima formaggi, salumi, un fiasco di vino, un agnellino o un capretto vivo.

Le bestie venivano legate per le quattro zampe appese all’ingiù e belavano per tutta la durata della gara. Ai premi venivano attribuiti quattro diversi stendardi. Il concorrente che toccava per primo uno di questi, diventava possessore del prodotto corrispondente. I vincitori erano quasi sempre, i ragazzi meno agiati che volutamente si sporcavano il corpo di terra o cenere per non scivolare, caparbi alla buona riuscita, soprattutto per riscattarsi dal triste inverno, crudele nei loro confronti. La serata si concludeva coi canti “strapolette” per prendere in giro, bonariamente, i partecipanti degli altri falò, sempre moderati e intonati al periodo di quaresima.

Sotto le ceneri del falò venivano messi rotoli di salsicce incartate, cipollotti freschi, patate e lampascioni conditi con sale e olio nostrano. I ragazzi si riempivano le tasche di sale grosso per buttarlo di nascosto nel falò e provocare scoppiettii, tantissime scintille e… qualche buco al lungo vestito delle donne partecipanti. Tutta la popolazione si preparava alla nuova fase delle colture agricole, le ceneri del falò venivano sparse nei campi mentre la brace residua si portava nelle case per far bruciare le forze malefiche accampate.

Le tradizioni del Gargano erano apprezzate dai “foresti pellegrini” che venivano dai lontani paesi per sostare e visitare i luoghi sacri, dove diverse Divinità hanno dimorato, e far rigenerare le energie spirituali. I promotori che oggi si attivano per mantenere vive queste vecchie tradizioni sono ammirevoli. Dei veri Benefattori! San Giuseppe è venerato tuttora dai tanti fedeli del Gargano che partecipano a messe solenni nel corso delle quali viene esposta sull’altare delle chiese ornate a festa la statua del Santo, il cui sguardo suggestivo invita la popolazione a respirare l’aria nuova di primavera, messaggera di fratellanza e bontà.


IL FALÒ DI SAN GIUSEPPE

La sera di San Giuseppe
si bruciano frasche e ceppi
e tanti giovanotti
senza più i cappotti
saltano e fan faville
sprigionando le scintille.
Le fiamme verso il cielo
sciolgono brina e gelo.
La gente di ogni loco
fa cerchio intorno al fuoco
il calore della fiammata
riscalda il vicinato
i cuori e i visini
delle belle signorine.
L’inverno è alla frontiera
ben venga la Primavera.

Antonio Monte


 Redazione

 

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