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01/03/2013

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VOGLIA DI NINA (SEDOTTO)

Clicca per Ingrandire Aveva l’abitudine, presa da suo padre già dall’infanzia, di alzarsi presto per recarsi al bosco, cercarvi funghi o asparagi, a seconda delle stagioni, oppure scendere a mare, non per una nuotata, ma per divertirsi vicino agli scogli, a raccogliere mitili, patelle e 'vuzz' (bozzoli, lumachine di scoglio). Vi trascorreva ore, quando poteva, senza stancarsi mai. Quel giorno, come sempre, passava in rassegna tutti i suoi ricordi registrati fino all’adolescenza, fino a quando, cioè, non dovette lasciare Rodi prima per proseguire gli studi, poi per il servizio militare, che lo restituì al paesello ormai maturo e con un bagaglio di esperienze che gli favorirono un lavoro indipendente.

Pensava a quando, seduto sopra lo scoglio più alto di tutta la scogliera, guardando il mare vedeva branchi di delfini inseguirsi come fanciulli a frotte; a quando, durante la guerra, seguiva i periscopi dei sommergibili che perlustravano (o spiavano?) la zona; a quando (e accadeva spesso) vedeva alzarsi dalla superficie del mare nero colonne d’acqua ch’egli contava a diecine; a quando, di sera, dal Belvedere o dalla passeggiata di 'Sotto il castello' (un castello di origini medioevali ormai fagocitato dalle sovracostruzioni, che ne hanno fatto sparire, dall’esterno, qualsiasi memoria), gli si parava la selva di luci delle lampare per la pesca al pesce azzurro (sgombri, alici, sarde e sardine che venivano in buona parte ributtati in acqua, sotto il molo, quando il pescato era superiore alla quantità richiesta dal mercato); a quando, da 'sott u castedd', s’incantava a guardare le lontane luci, intermittenti come stelline, a causa della distanza e della varia densità dell’aria, delle isole Tremiti e del loro rosso faro; a quando, con altri compagni di scuola media, raccoglieva mitili e, con loro, li mangiava grondanti d’acqua e di succo di limone che avevano avuto la premura di portarsi (illudendosi - ma quella era la credenza popolare di allora - che l’acido citrico potesse purificare quei molluschi che crescevano grassi nelle acque dove sfociavano le fogne bianche della cittadina).

Pensava al primo amore adolescenziale, a Nina, un amore nato nell’estate del ’52, e morto, non per colpa sua, dopo appena una settimana dalla partenza della fanciulla (cosa che non gli avrebbe mai più fatto pensare di fidanzarsi, di amare un’altra donna che non fosse la sua “marchigiana”); pensava anche che le cose stavano cambiando perfino per gli scogli che, anno dopo anno, si stavano sempre più impoverendo, perché gente proveniente dall’entroterra, specialmente dal baresano, facevano repulisti d’ogni forma di vita vegetante su quelle povere pietre destinate a divenire bianche come ossa di animali al sole, mentre già aveva difficoltà a trovare i ricci, di cui un tempo c’era un’abbondanza quasi paragonabile a quella che aveva notata fra le scogliere sarde, calabresi e lampedusane. Pensava e cercava, cercava e pensava. Di tanto in tanto, gli capitava d’individuare qualche raro grosso esemplare di p’lόs’ (granchio peloso), che lui preferiva perfino alle aragoste e agli astici (assenti, per la verità, in quelle acque) per un sughetto da condirci un bel piatto di linguine.

Ed era proprio quello che stava facendo quando, mettendo fuori la testa dall’acqua per riprendere fiato, sopra di sé vide qualcosa che lo sorprese così tanto da sentirsi per la schiena un brivido di freddo che lo catapultò in una situazione, sia pure momentanea, di spavento. Due gambe sullo scoglio! Due gambe ch’erano due colonne, anche se convergenti, a compasso, verso un punto che pareva essere situato tra le bianche nuvolette sparse nell’azzurro del mattino. Prima di riaversi, il pensiero corse a una reminiscenza classica, al Colosso di Rodi, e lui si sentì tapino, come le navi greche che transitavano sotto le gambe divaricate di Apollo, per entrare nel retrostante porto. Due gambe che non appartenevano certo né ad Apollo né a qualsivoglia mortale maschio; erano gambe lisce, appena abbronzate, ben tornite: erano gambe al femminile, dalla punta degli alluci fino all’estrema sommità, appena appena custodita da una lieve stoffa bianca, che si poteva confondere, in effetti, proprio con le nuvolette del cielo!

Stupore, meraviglia, piacere. Piacere, soprattutto! Andrea non ricordava nulla del genere da un’eternità. Anzi, gli pareva che uno spettacolo del genere non lo avesse mai goduto: si trattava di qualcosa del tutto nuovo, oltre che del tutto inatteso, insperato. Lui che alle donne non pensava quasi più (i rapporti con l’altro sesso erano del tutto sporadici e improntati a immediate esigenze puramente fisiologiche), si sentì come una stretta al cuore. Non specificamente per quello spettacolo fuori orario, fuori tempo e fuori luogo, ma perché, andando su con gli occhi, oltre quelle due generose e ben proporzionate protuberanze, appena ricoperte d’un leggero velo che, più che lasciarne indovinare le forme, le mostrava appieno, con tutti i particolari delle loro curve, il suo sguardo si era imbattuto in un visino delicato, incorniciato da una profonda cascata di capelli biondi lisci, suddivisi proporzionatamente fra i lati delle gote, custodi di due occhi color castagna dentro al riccio non ancora dischiuso. Avrebbe voluto emettere un fischio di approvazione, ma fece in tempo ad arrestarsi: non era una di quelle che si vedono ancheggiare sfacciatamente per la strada, al solo scopo di attirare l’attenzione dei maschietti; era tutt’altra cosa!

Ma non c’era sfacciataggine anche in lei, che si era presentata in quelle condizioni a uno sconosciuto? Forse lo era, ma forse, più probabilmente, lei era stata spinta su quello scoglio solo dalla curiosità. Che c’era di male in ciò? Non è la curiosità la molla dell’intelligenza? Se l’ha dunque fatto - si disse Andrea - allora è per lo meno intelligente. E se è intelligente, perché dovrei vedere del male nel suo atto? Andrea l’approvò, le dette il proprio plauso - silenzioso, emise la sentenza, l’assolse.

“Buon giorno! Mi scusi questa sorta d’intrusione. Sono stata incuriosita dal fatto che rimaneva così tanto tempo in apnea e non riuscivo a capire cosa stesse facendo là sotto. Sa, io sono romana, sono un’abile nuotatrice… da piscina, ma non m’intendo molto di cose di mare, in generale, meno che meno di cose di scogli, in particolare. Che stava facendo, se è lecito saperlo?”

Andrea, con garbo, ma con il cuore che ancora non era sceso dalla gola, le rispose, dicendole non solo quel che stava facendo un momento prima, ma anche quel che aveva fatto fin dall’aurora e pervenne persino a tirare fuori dall’acqua il retino, con un buon bottino di frutti, che avrebbe poi gustato a mezzogiorno.

“All’infuori dei mitili, non ho mai mangiato tutta l’altra roba. Che sapore hanno le patelle? E le lumachine? E come le prepara? Che cosa ci condisce?”

Anche a queste domande Andrea rispose. Con piacere. Invitarlo a parlare di quelle cose era meglio che invitarlo a banchetto nuziale: lui ci sguazzava in quelle situazioni. E parlava di sughi, di paste, di quali formati bisognava fare uso per questo, di quale altro per quest’altro, di tempi di cottura, di vini da bere. Insomma, sciorinava tutto il suo sapere culinario che si vantava di non aver appreso né da ricettari né da scuole né da nessuno in particolare. Riconosceva solo di aver preso le basi da sua madre, basi che comunque aveva modificate nel tempo, eventualmente adeguandole ai suoi nuovi gusti. E poteva mancare che saltasse di palo in frasca, per poter parlare di un’altra sua passione, quella dei funghi? Gliene parlò tanto che lei dovette intervenire, per fargli notare ch’era ormai tardi, che il sole era allo zenit, che a lei era venuto un così grande appetito che avrebbe divorato tutto il contenuto del di lui retino, senza nemmeno togliere i gusci. Andrea, che nel frattempo aveva cambiato posizione e si trovava allo stesso livello degli occhi di lei, presentatasi col nome di Alba, guardò, riparandosi con la mano, verso il sole e dovette convenire che, in effetti, aveva impiegato più tempo a parlare con lei che a raccogliere frutti. Cosa fare? - si domandò Andrea. La invito? Non è un poco indelicato, senza pensare al fatto che potrei anche essere ritenuto un presuntuoso poco garbato? Vinse la riluttanza, azzardò. Cosa poteva perderci? Non aveva preso lei l’iniziativa di avvicinarsi a uno sconosciuto? E poi, perché non essere gentile? La gentilezza avrebbe mai potuto disturbarla? E così, convintosi, esternò la propria idea. Solo che avrebbe dovuto comprendere che lui era un uomo solo, celibe, che viveva bonariamente, senza troppe raffinatezze, quasi in modo spartano: un monolocale con angolo cucina, un letto, anche se ampio, un armadio, pochi altri mobili e qualche necessario elettrodomestico (solo il bagno con servizio di doccia era separato).

“Accetto. Va bene. Cioè, mi sta bene. Anch’io sono un po’ spartana. Sto viaggiando con la Vespa, un regalo di mio padre al conseguimento della laurea, alloggio in una modesta pensione, anche se molto pulita, mi arrangio a mangiare e raramente vado in trattoria per un piatto caldo. Dopo Rodi, andrò a Manfredonia passando per Peschici Vieste e Mattinata, mi fermerò non più di due giorni e poi raggiungerò direttamente Bari, ospite di una cara amica conosciuta all’università. Non dispongo di molti liquidi - detto con tutta sincerità - e la generosa ospitalità mi allieta più di quanto lei possa forse immaginare. Vada per un bel piatto di linguine!”

Raccolte le sue cose (una borsa di paglia, una lunga e larga gonna a fiori, quasi trasparente, un paio di pianelle e una camicetta) lasciate poco distante, sulla tonda e asciutta ghiaia della riva, si mise sulle orme di Andrea, che prese a inerpicarsi per un sentiero, a tratti segnato da gradini scavati nella terra; un sentiero che, per le tante volte percorso in vita sua, avrebbe potuto affrontare a occhi bendati. Lei però si preoccupò, temendo che, seguendo quella via, non potesse raggiungere il suo mezzo di locomozione lasciato dove terminava la strada in terra battuta, prima di scendere giù nella scogliera. “Non si preoccupi” la rassicurò Andrea e, indicando un punto circa dieci metri più in alto, completò: “Giunti lassù, gireremo a destra e a meno di cento metri troveremo la sua Vespa”. Dopo pochi minuti, stavano cavalcando lo scooter, verso casa di Andrea. Alba, anche se quella mattina aveva saltato la sua nuotata (il mare era meraviglioso, pareva una tavolozza azzurra, cioè, una tela appena dipinta di azzurro!), accettò di buon grado l’invito del giovane a rinfrescarsi sotto il getto della doccia, si asciugò il corpo con un morbido accappatoio di lui, i capelli con un asciugamano, rinunciando allo strumento elettrico. Andrea aprì una bottiglia di prosecco, riempì due calici, ne offrì uno a lei e, sorseggiando, prese a preparare il pranzo. Si parlò pacatamente, senza fretta, nonostante la dichiarata fame di Alba, si sorrise, ci si commosse, in base a racconti alquanto tristi sia dell’uno che dell’altra, si passò al 'tu', così come ormai suggerito dalla circostanza. Lei volle sapere perché non usava cipolla per soffriggere i granchi pelosi (ne aveva catturati solo tre, Andrea, quella mattina), perché non abbondava in filetti di pomodoro, perché le linguine e non gli spaghetti, il perché di tante altre cose, non solo di cucina, ma anche della vita di lui, del suo celibato, del suo vivere da solo, eccetera. A tutto rispose Andrea, con tutta la sincerità e la franchezza cui era aduso e come se Alba fosse una persona di sperimentata fiducia. D’altra parte, comunque, anche Alba si era mostrata aperta al dialogo e alle confidenze, ancora prima che lo facesse Andrea. Cosa poteva rimproverarsi che lei non dovesse rimproverare a se stessa?

Pronte al dente le linguine, Andrea le scodellò e le passò per pochi secondi nel tegame dove aveva preparato i poveri granchi, divenuti nel frattempo rossi come peperoncini maturi. Aggiunse un filino di olio extravergine di oliva, di propria produzione, fece le razioni, dividendo alla pari, atteso che lei aveva dichiarato di avere una fame da lupo, cioè, da 'lupa', come aveva precisato lei. Finite le linguine, sobriamente irrorate, giusto per l’evenienza, con un “Cacc’e mmitte” lucerino da tredici gradi alcolici (Andrea non amava i rossi inferiori ai tredici-dodici gradi e i bianchi, fuori pasto, che non fossero spumanti ricavati dal vitigno Prosecco), passarono a gustare, col solo uso delle mani e di uno stuzzicadenti, il misto di mitili patelle e 'vuzz', cotti anch’essi in filetti di pomodorini freschi, aglio soffritto e peperoncino piccante. Seguì qualche pezzo di caciocavallo 'podolico' di circa dodici mesi di stagionatura (Andrea le avrebbe volentieri offerto latticini freschi, ma non essendo preparato a quella 'visita', non ne aveva procurati), qualche costa di sedano, un buon caffè, non senza aver prima visto il fondo della bottiglia del generoso rosso. Alba dimostrava di essere una buona bevitrice, una che sapeva apprezzare i prodotti delle vigne, “quelli spremuti” aveva tenuto a sottolineare. Così come aveva finito per dichiarare che non aveva mai mangiato così di gusto come con quella povera e per lei inedita roba di mare, di cui, a parte i mitili, comunemente chiamati anche a Roma “cozze nere”, non immaginava quasi nemmeno l’esistenza.

La casa era di antica costruzione, rimodernata, ma era molto fresca. Si stava bene. L’effetto stanchezza, comunque, stava dando i primi segni. Nonostante la continuità del dialogo, qualche abbassata di palpebre cominciava a farsi notare. In entrambi. “Se non ti dispiace, vorrei andare” disse la ragazza. “No, non mi dispiace. Ma, se devi andare per riposarti un po’, lo puoi ben fare senza cerimonie anche nel mio letto. Capisco che puoi avere una certa soggezione, qui, in mia presenza, ma… Le lenzuola sono fresche di bucato, le ho cambiate proprio stamattina. Io, nel frattempo, cercando di fare quanto meno rumore possibile, procedo a rassettare. Dopo, se vorrai, ti proporrò, visto che sei motorizzata, di fare una capatina nella non lontana Foresta Umbra. Sono circa trenta chilometri. Io, qualche anno fa, la raggiunsi, per la prima volta in vita mia, con una bici, una specie di ferro vecchio arrugginito di un amico appassionato di ciclismo e dotato di una vera bici da corsa. Mi stancai da matto, a fare tutta quella salita, ma ci divertimmo un sacco, anche perché, nell’occasione, c’era la prima (e finora è stata l’unica) Sagra della Foresta, con tanta musica leggera, da ballo e popolare garganica oltre ad altre varie attrazioni. In mattinata, qui a Rodi, sul piazzale della marina di levante, in coincidenza, c’era stata la prima Sagra delle Arance, con gare di gimkana e altri sport, oltre a una partita di calcio disputata, sull’arenile, fra studenti liceali e universitari in vacanza. Bei tempi, allora. E che goliardia! Adesso tutto tace, fino a quando luglio non è passato almeno per metà. Bene, decidi liberamente, non voglio forzarti a far cose che non dovessero piacerti”.

“Rimango”, rispose e, messasi in libertà (Andrea girò la testa dall’altra parte, per correttezza) s’infilò, in abito evitico, nel fresco letto. Presto, nel silenzio, si evidenziò il respiro ritmato della giovane, sprofondato in un sonno ristoratore, reso ancora più profondo dalle discrete libagioni in onore di Bacco. Passò più di un’ora. Andrea, finito di rassettare, aveva un po’ letto. Ma la presenza di Alba a pochi metri da lui aveva reso la lettura così superficiale da essere necessaria una seconda lettura, in un momento più idoneo per la stessa. A ogni parola che leggeva intercalava lunghi minuti di pausa 'riflessiva'. E, guardando verso il letto, tra sé e sé diceva: “Ma che bella ragazza! Chissà chi è veramente? Sarà vero che si è da poco laureata? E’ romana 'de Roma' o una 'ciociara' che si spaccia per romana? E se ha mentito su questo, non avrà detto un sacco di frottole su tutte le altre cose che mi ha raccontato? Ma no, non è possibile. Anche se la bellezza esteriore non è sinonimo di bellezza interiore, di genuinità, di purezza d’animo, è possibile che sappia mentire così spudoratamente, con quella voce calda, dolce, suadente? Devo convincermi della sua buona fede. Anche se non ho alcuna intenzione di innamorarmene e di chiederle di sposarmi… Però, che bella che sei, Alba! Sei più bella delle albe che vivo ogni mattina, quando Venere campeggia sola e incontrastata nel cielo d’oriente, prima che il sole abbia il sopravvento sulla sua luce e la tenga nascosta fino a sera, quando ricompare, prima delle stelle, a occidente. Sei bella e fresca come una primavera, sei armoniosa, aggraziata, dolce. Dolce come una bambina. E… matura al punto giusto per il matrimonio!”

Alla fine, la sua lingua andò a battere dove il dente gli doleva. E come gli doleva! Era forse normale essere della sua età e non essersi sposato per una delusione adolescenziale? Per una delusione rispetto a quelle che erano le sue aspettative, non in base a una promessa fattagli da Nina. Nina che non aveva mai risposto alle sue lettere, Nina che sicuramente non era innamorata di lui, Nina che, forse (o senza forse?), aveva dato retta ai suoi genitori e aveva sposato uno del luogo, anche se aveva mostrato che le piaceva tanto il Gargano e aveva tanto giocato con Andrea nelle sue acque verdazzurre e sopra quella sabbia dorata e più sottile d’una semola di grano rimacinata. Che vita era mai la sua? Alzarsi, badare al lavoro, alla casa, starsene sempre in sé, anche quando spaziava per i boschi e s’immergeva nelle chiare e limpide acque del suo mare. Poteva continuare così? Che vecchiaia sarebbe stata la sua, senza un figlio, senza un affetto, senza una persona che gli potesse fare da specchio, da contraltare, da amico, da consigliere, anche? Vestiva bene, per esempio? Aveva, sì, buoni gusti, ma era sufficiente per le scelte che faceva, in tutti i campi della sua esistenza? Si vedeva scialbo. Tutto era scialbo intorno a lui: i libri, i quadri (pochi, dato lo spazio limitato, seppure di giovani talenti), le due o tre sculture in ferro battuto, tutto, tutto…

Meccanicamente, caricò la moka, la pose sul fornello, accese il gas, rimanendo in piedi lì davanti in attesa che venisse fuori il caffè. Quando l’aroma iniziò a diffondersi per la casa, si accorse che Alba, alle sue spalle, si era mossa, si stava rivestendo e si stava alzando.

“Riposato bene?” chiese senza girarsi.
“Sì. Sonno da ghiro. Ristoratore. Forse ho pure russato, non so. Grazie… Hai preparato il caffè!? Che bravo! Dopo quelle libagioni e il profondo sonno, è quello che ci vuole per andare a ricaricarsi di ossigeno di montagna”.

'Montagna' fu per Andrea una parola magica, scatenante anche la risposta non avuta prima alla sua proposta. Se ne sentì felice, senza rendersene consapevolmente conto. Così, dopo il caffè, una rinfrescatina e subito si uscì prima che fosse troppo tardi. In mezz’ora raggiunsero la foresta, Andrea la guidò verso il Museo Naturale, poi al recinto dei caprioli e infine giù al Cutino d’Umbra, una sorta di laghetto alimentato più artificialmente che dalle piogge e, ciononostante, quasi sempre in secca durante l’estate, tale che molte volte viene data autorizzazione di pesca indiscriminata, poiché carpe e pesci-gatto presenti in quelle acque ugualmente morirebbero. Un’ultima visita Andrea la riservò per il Gigante della Foresta, un faggio secolare di grandissime dimensioni, sulla via, peggiore di un groviera, che conduce dal centro a Vieste. Il sole era ancora alto. Andrea pensò di scendere più giù e fermarsi verso il limite del bosco, nel bel mezzo della macchia mediterranea, prevalentemente infiorata di odorose ginestre, ancor più fragranti col farsi della sera. Lasciarono lo scooter sulla strada e si inoltrarono per alcune decine di metri, ponendosi all’ombra di una ginestra che pareva la più alta e la più folta della zona. Alba non faceva che ripetere “Che bello, che bello! Fortunati voi! Uno splendido mare, boschi meravigliosi, aria pregiata… Ma che significa Umbra? Non avrà certo a che fare con l’Umbria, visto che siamo nel Gargano”.

“No, infatti. Umbra è latino e significa, per l’appunto, ombra. Questa foresta, caratterizzata prevalentemente dalla presenza di faggi, rimane, come hai potuto tu stessa notare, così al buio, d’estate, che le ombre dominano sulla luce. Questa è la spiegazione ricevuta e io ‘relata refero’. Se poi non è così, me ne scuso. Ma non ritengo plausibili altre spiegazioni”.

L’aria era ancora calda, Alba si tolse la giacchina e rimase in pantaloncini e reggiseno, quello del costume che teneva in borsa. Andrea si era sdraiato comodo, Alba preferì mettersi seduta, a poche diecine di centimetri da lui. Sempre conversando, avvertirono un certo saltellìo e, nel contempo, uno strano fruscìo. Alba si mise sul chi va là, Andrea rimase indifferente. “Cos’è?!” chiese Alba, fra l’incuriosito e l’allarmato. Andrea stava per ridere, poi si limitò ad abbozzare un sorriso. Aveva capito di che si trattava, ma sperava che il topolino e il serpente che lo inseguiva non venissero verso di loro. Inaspettatamente, invece, proprio a qualche metro da loro, il topolino ebbe uno scarto, si avvicinò alla coppia mentre una lunghissima biscia nera si appalesava alle sue spalle. Con un contro-scarto, il grigio topino prese a destra, evitando di poco la ragazza, ma la vista della grossa biscia terrorizzò la giovane che non seppe far altro che gettarsi addosso a quel povero Andrea. Ci si buttò e rimase abbarbicata in modo che nemmeno la forza di diversi uomini l’avrebbe disancorata dal compagno. Andrea, da parte sua, nulla fece per allontanarla, anzi ne approfittò per abbracciarla anche lui, apparentemente per difenderla dalla biscia, in realtà, per seguire un impulso naturale, un desiderio atroce che lo aveva tenuto attanagliato fin dal mattino e che aveva saputo tenere represso anche durante il sonno di lei, tutta nuda, nel suo letto. Che profumo di pelle giovane! E che afrodisiaco odore di sudore proveniente dalle ascelle intonse, simili a nidi di cardellini! L’appropriato e prezioso condimento di un piatto che si presentava prelibato! Ma lo avrebbe consumato? Poteva mai approfittare della situazione di disagio di quella donna impaurita per averla per sé, anche se il sangue gli era penetrato dappertutto con una pressione tale da gonfiare una mongolfiera in pochi secondi? Mentre il bianco e il nero combattevano in lui, la risposta gli arrivò, inattesa, ma, c’è bisogno di dirlo? graditissima, proprio dalla ragazza. Alba, in quelle condizioni doveva sentirsi bene. Nulla fece per divincolarsi. Al contrario, o per un atto di gratitudine, o perché anche lei desiderava quello che desiderava Andrea, cercò la bocca di lui e vi incollò sopra le proprie labbra, non molto carnose, ma tenere, calde, umide, infuocate. Andrea rispose adeguatamente, senza aspettare un ancor più esplicito invito di lei. E si sentì perfino autorizzato ad andare oltre. Le tolse il reggiseno, mise a nudo quello che la mattina aveva visto velato, se ne impossessò, lo frugò, l’accarezzò, andò oltre. Alba, da parte sua, s’impegnò a sfilargli la camicia, per andare al contrattacco. Andrea la imitò, aiutandola ad alleggerirsi del rimanente vestiario. La dolce lotta proseguì fino a quando entrambi non furono nudi, come la biscia propiziatrice del magico momento. E si presero, si presero, si presero. Senza verecondia, senza pudore, fino a quando non si sentirono soddisfatti ed esausti.

Andrea, che non era del tutto nuovo a quei rapporti, si accorse però della enorme differenza tra le precedenti esperienze e la presente: non c’erano paragoni! E non c’erano paragoni non solo per la densità e intensità del rapporto in sé e per sé (miracolo che non si era mai verificato nelle sue prestazioni), ma anche per la spontanea e voluta piena partecipazione di lei, nonché, e soprattutto, per la dolcissima sensazione da lui provata, per l’orgogliosa presa di coscienza che lei gli si era data ancora del tutto fisiologicamente vergine! Era la prima volta, per Alba: una prima volta il cui ricordo sarebbe rimasto indelebile nella sua memoria, nel suo sangue, nel suo essere.

Rimasero nudi, uno accanto all’altra, una guancia di lei sul braccio di lui, per lunghissimo tempo. Pareva non volessero togliersi da quella posizione, parevano incollati, parevano essere divenuti un tutt’uno. Fino a quando, col farsi del crepuscolo, non cominciarono ad avvertire i primi brividi di freddo. A quel punto uscirono dalla condizione di trance, si rivestirono, inforcarono la Vespa e rientrarono al paesello, seguendo questa volta la strada costiera, quasi tutta immersa nella pineta che, col suo profumo, degrada fino al mare, quasi a toccarne gli scogli e l’acqua (trasparente in bonaccia, torbida di sabbia e rabbiosa quando sferzata dal vento). Giunti a Rodi, Alba espresse il desiderio di rientrare direttamente in pensione. Non aveva alcuna voglia né di cenare, né di stare in compagnia. Quei momenti erano stati troppo belli per condividerne il residuo calore con chicchessia. Nemmeno con Andrea voleva condividerlo; voleva riaccarezzarsi, voleva toccarsi, voleva riassaporare la saliva di lui sulle sue labbra, sulla sua pelle, ma non aveva alcuna intenzione di starci insieme, non sopportava nemmeno la sola idea, la sola ipotesi che Andrea si sovrapponesse a se stesso, privandola di ciò che le aveva dato. Raggiunta la pensione, se ne andò direttamente a letto, senza neppure lavarsi. Lavarsi avrebbe significato scrollarsi di dosso il ricordo che invece lei voleva tenere stretto a sé e dentro di sé. Accomiatandosi, non si erano abbracciati né si erano baciati; si erano scambiati un semplice “ciao”. Non avevano detto nemmeno “ci vediamo domani mattina”. Una mattina a cui Andrea non pensò, dando per scontato che l’avrebbe rivista. Una mattina che per Alba, invece, rappresentava il momento della partenza, il momento di proseguire il suo viaggio programmato, lasciandosi alle spalle quella parentesi che racchiudeva in sé la magia di un sogno, che doveva rimanere un puro sogno.

Durante il loro lungo dialogare, Alba aveva detto che il suo cognome era Ferrario; ma Andrea, dopo mesi di silenzio di lei, non era riuscito, né con l’aiuto degli elenchi telefonici, né dell’anagrafe dell’Urbe, a trovare un Ferrario che conoscesse una ragazza di nome Alba. Cosa che lo fece entrare nell’atroce dubbio che il suo non fosse stato che un sogno o che Alba fosse, sotto mentite spoglie, la sua Nina, presentatasi a lui non per vendicarsi, ma per dargli, finalmente pentita della propria ignavia, quello che lui tanto aveva vanamente e per lunghissimi anni desiderato (a parte il matrimonio, rimasto allo stadio di puro desiderio). Non trovò più pace, pur conservandosi grato verso quella sconosciuta di nome Alba che, per una giornata intera, lo aveva tenuto a fluttuare tra le stelle. Dalle quali, peraltro, non intendeva minimamente venir giù.

Enzo Campobasso

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