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01/02/2013

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QUEL TRENO…

Clicca per Ingrandire Quante volte aveva preso quel treno? Tante. Molte. Sicuramente molte. Troppe. Ma lui, tranne che per i primi viaggi, non le aveva poi contate più. Sapeva solo che quella era l’ultima: al prossimo fine-settimana avrebbe affrontato il viaggio all’ingiù, per raggiungere la sua nuova destinazione a Taranto, per imbarcarsi sui sommergibili da cui era stato temporaneamente sbarcato in seguito a malattia e a convalescenza.

Taranto era stata la prima grande città che avesse mai raggiunto uscendo dal suo paesino, pure sul mare, lungo la costa del Gargano. Aveva appena compiuto sedici anni, era in voga “Vola colomba” portata al successo da Nilla Pizzi al Festival di San Remo di quell’anno. E forse per darsi coraggio i giovani che si scoprirono diretti alla stessa destinazione la cantavano in coro. Dopotutto, la colomba rappresentava, forse inconsapevolmente per loro, un emblema di libertà. Una libertà che stavano per perdere barattandola con un posto di lavoro all’insegna del sacrificio e dell’obbedienza volute dalla disciplina militare (che secondo certe opinioni avrebbe fatto di loro dei veri uomini oltre che dei perfetti soldati). Il canto rappresentava una sorta di catarsi aprioristica, uno sfogo per tutti i bocconi amari che avrebbero dovuto ingoiare senza poter mai dire “ma…”.

Ripensava spesso a quel primo viaggi; ci ripensava, in particolare, tutte le volte che prendeva un treno, tutte le volte che passava nelle vicinanze di una stazione o di una ferrovia in aperta campagna. Non che fosse un’ossessione, ma non poteva non pensarci. Adesso, quel treno era un altro treno. E lui non era più un aspirante sottufficiale di Marina ma un Sergente, con due baffi d’oro fiammeggianti per ciascuna manica della giacca: un Sergente con alcuni anni di servizio e prossimo a conseguire il grado superiore, con la sicurezza della carriera. Il futuro gli avrebbe riservato, meritandolo, il massimo grado di Capo di Prima classe e forse un proseguimento di carriera come ufficiale. Forse non era molto, forse invece lo era. Vivendo in un paesino di provincia e distratto dagli studi, non s’era accorto del boom economico dei primi anni cinquanta che ad altri, altrove, aveva aperto le porte del mondo del lavoro. Lui vedeva solo scie di barche che solcavano l’Adriatico e scie di aerei che solcavano il cielo sulla sua testa riempiendolo di lunghi nastri di vapore condensato dall’aria fredda.

Ne vedeva tanti di aerei che se n’era così invaghito da non sognare altro che di poterli pilotare. Solo che quando fu il momento di arruolarsi trovò sulla propria strada l’ostacolo dei genitori timorosi che, facendo il pilota, il proprio unico figliolo potesse avere vita troppo breve. Suo padre, in particolare, che aveva militato in Marina ed era ancora imbarcato come nostromo su navi da trasporto civile, avrebbe gradito che il suo rampollo lo imitasse. E, categorico fino alla voluta conseguenza, gli concesse il benestare per un arruolamento che lo vedesse impiegato in mansioni d’ufficio o comunque a terra (senza minimamente poter prevedere che quel figliolo, di voli, sia pure con aerei di linea, ne avrebbe fatti a decine, con migliaia di chilometri per volta, mai con la certezza matematica di scendere a terra sano e salvo!). Animato dal desiderio di affrancarsi quanto prima da quella situazione di sudditanza e riservandosi di cambiare strada successivamente, quando avesse raggiunto la maggiorità per decidere da solo della sua vita (il che significava partecipare a un concorso di pilota in Aeronautica) si arruolò provvisoriamente in Marina. Non stava a piangerci su ogni momento, ma ogni tanto, con persone amiche, si sfogava. E si sfogava anche contro la moglie, che, prima di sposarsi, al momento del possibile concorso in Aeronautica, era stata di pari opinione dei futuri suoceri.

Sia come sia, la realtà era quella: viaggiava su quel treno che lo portava verso quel porto delle Marche dove, per fortuna (o sfortuna?), sarebbe rimasto ancora per una sola settimana. Sedeva sempre di spalle alla direzione di marcia perché ciò gli conciliava qualche pisolino tra una lettura e l’altra (era un formidabile divoratore di “gialli” e di racconti-romanzi di fantascienza) o tra una lettura e momenti di contemplazione del paesaggio. Quel giorno, quel pomeriggio, era in posizione contraria e più che leggere colorava i propri pensieri con il verde ottobrino della campagna, li costellava di pali e di alberi in corsa, veloci nell’avvicinamento, lenti nell’allontanarsi. Era solo nello scompartimento, ma pochi erano in realtà tutti i viaggiatori di quella carrozza e sicuramente di tutto il convoglio. Il silenzio appena ritmato dalle giunture dei binari sotto le ruote lo teneva rilassato e lo aiutava nei suoi pensieri, lo aiutava a programmarsi un futuro diverso, lo invogliava ai sogni, a fabbricare castelli in aria. Ma lo induceva anche alla riflessione, a fare consuntivi sul proprio vissuto, a rivivere tutti i passaggi e i momenti del passato, fermandosi particolarmente sul presente. Si era sposato giovane, ma figli non ne erano venuti e, secondo il parere concorde dei numerosi specialisti consultati dalla coppia, non limitatamente all’Italia, non ce ne sarebbero stati.

La vita matrimoniale, anche forse per la mancanza di eredi, non era quella che aveva immaginata e accarezzata, non era quella desiderata. Non che non amasse la giovane moglie, ne era “stracotto” invece. Solo che tra loro, oltre la questione della comune sterilità (che forse avrebbe dovuto fare da collante) c’erano inspiegabili cose che ne offuscavano la serenità di coppia, ne mortificavano la felicità. Mancavano il dialogo, l’intesa, senza parlare di quel pizzico di complicità necessaria in molti atti della loro vita, come il sale nel pane quotidiano. Lei poi era gelosa e di conseguenza molto sospettosa che lui non facesse altro che trescare tradimenti. Insomma viaggiavano in un mare di onde alte e lunghe sulle quali altalenavano sollevandosi fino al cielo, talvolta, o per lo più scendendo nei recessi delle acque fino a toccare i fondali vicini all’inferno. Nel loro fragile guscio di noce sembravano votati all’inesorabile naufragio. Ma lui non progettava tradimenti, anche se molte volte si fermava a guardare l’erba del vicino, un’erba che guardava libidinosamente non per la sostanza “visibile”, ma perché gli pareva ricca di quell’essenza di cui abbisognava la sua anima. La giovane moglie, classica donna mediterranea dal carnato quasi eburneo sotto una capigliatura folta e corvina, era bella, formosa, aggraziata. Solo che lui, guardandola, non riusciva a immaginarla con un’anima in corpo, ma come una statua di Fidia, piena solo di marmo. Viaggiando (era stato, per un certo tempo, anche imbarcato sulla “Vespucci”, la famosa nave-scuola della Marina Militare, che lo aveva portato a toccare porti remoti mille e mille miglia da casa) sperava e sognava sempre che al proprio ritorno l’avrebbe trovata diversa, sperava che sarebbe successo a lei quel ch’era successo a Pinocchio, ch’era divenuto un essere umano, in corpo e anima. Invece, a ogni rientro, sempre la stessa delusione, ma sempre più cocente.

Viaggiava ormai da ore, ma pareva aver perso la cognizione del tempo: i diagrammi del paesaggio gli scorrevano davanti agli occhi quasi senza farci più caso, come non stava facendo caso nemmeno alle stazioni di fermata del treno, ai rivenditori di caffè e di giornali, ai seppur pochi passeggeri che s’avvicendavano nelle carrozze. Fino a una stazione intermedia del viaggio. Qui pare prendere coscienza che il treno si sta fermando. Si alza, guarda giù. Nota innanzitutto, chissà poi perché, un grosso valigione. Dopo, vicino ad esso, nell’atto di afferrarlo per la maniglia, una bruna niente male, falsa magra, capelli ondulati sulle spalle coperte da un soprabito di buon taglio, blu scuro, quasi come il colore della sua divisa. Non pare essere molto lontana dai venticinque anni di età. Il bagaglio sembra pesare un accidenti. Si muove, d’istinto, e si precipita verso il terrazzino. Apre la porta, discende un gradino, ruba la grossa valigia dalle mani della ragazza e la tira su portandola direttamente sul portabagagli del proprio scompartimento. La giovane lo segue, muta, sicuramente sorpresa dall’atto cavalleresco dello sconosciuto. “Grazie. Buona sera - gli dice. - Questa valigia pesa quanto un elefante: il suo aiuto è stato davvero prezioso”. E continua a parlare senza quasi dargli il tempo di badare ai convenevoli e gli dichiara, come se lo conoscesse da sempre, il contenuto di essa e il perché viaggi così carica. Intanto si siede “rubandogli” il posto e ponendosi così con il volto in direzione di marcia.

Si siede anche lui. Ora sono di fronte. Lui la fissa. Non parla. Ascolta soltanto. Pare che lei non abbia mai parlato o che non parli da molto tempo e coglie quest’occasione per dare sfogo alla sua esigenza di farlo. Quanto dice! Dice quando e dove è nata, quanti figli sono, chi sono i genitori, dove abita, dove lavora… tutto! O quasi. Non gli parla solo di ciò che indossa sotto ciò che appare. Ma dice di essere stata fidanzata a un materialista arrivista, dice di averlo lasciato perché si era accorta anche di quanto era gretto, specialmente nell’anima. Pare che parli a se stessa, è quasi in “trance”. Lui tace e continua a tacere. Non solo perché timido, congenialmente timido, ma anche perché si sente affascinato. E’ così calda, così tenera, così dolce quella vocina di bambina che se ne sente attratto, avviluppato e trasportato in una dimensione che non conosce, che non ha mai pensato potesse esistere. E’ stupito, estasiato. E lo stupore gl’incolla la lingua, gli chiude le labbra. Angelica voce, molto più bella – pensava lui – del suo procace corpo. Ma chi l’aveva mandata lì? Era in risposta a una sua preghiera inconscia? Era uno scherzo del destino? O una semplice beffa? O stava forse dormendo? Eppure, attraverso il finestrino, la campagna si muoveva, lui la vedeva, sia pure con la coda degli occhi, quegli occhi catturati dagli occhi sognanti di lei! Era la realizzazione del suo desiderio accarezzato da anni, da sempre? Era quello il suo angelo in pelle di donna?

“Parlami di te, adesso - passando dal ‘lei’ al ‘tu’, improvvisamente, ma quasi con l’aria di chi ne fosse stato autorizzato o come se così si fosse convenuto. - Vedo che sei sposato…”.
“Sì, lo sono, come dice la mia vera” risponde come un automa, ma si blocca, non riesce a proseguire. Lei, con dolcezza, lo incalza. Anzi, suggerisce, parla lei per lui.
“Non riesci a dire? C’è qualcosa che ti turba? Forse non sei felice?”
“No, non lo sono” e improvvisamente scioltasi la lingua, a fiumi e a cascate ne escono le parole.

Le sciorina, con pari franchezza e sincerità tutto quel che si nasconde nel suo cuore, nei recessi dell’anima. Questa volta è lei che pende dalle labbra di lui. Ma in lei non viene suscitato fascino; ciò che prende vita in lei è piuttosto una forma di simpatia, di “sofferenza con” lui, è un accoramento, un trasporto sulle ali della commozione e forse della pietà. Lui, preso a sfogarsi, non si accorge dei sentimenti di lei, non si accorge nemmeno di una coppia di lacrime che timidamente compaiono tra le ciglia di quegli occhi neri. Solo quando il suo racconto volge al termine, si avvede che le sue mani sono tenute strette fra quelle morbide e calde di lei. Contraccambia la stretta, la fissa, muto. Muti entrambi. Le mani fanno quel che avrebbero fatto i loro corpi se avessero potuto: si posseggono, sessualmente, come (riflette in un momentaneo barlume di coscienza lui), in un romanzo di fantascienza letto in viaggio alcuni anni addietro, facevano le mani di due esseri alieni in un lontano mondo diverso dalla Terra.

Il treno fischia, rallenta la corsa. Lei riprende la padronanza di sé, scioglie piano, con dolcezza, le sue mani da quelle di lui, si alza, “E’ ora - dice. - Il mio viaggio è finito. Vorrei essere Cassandra, alla rovescia: fare questa profezia ed essere smentita dai fatti, ma è l’unica che mi venga di fare: sento che la nostra strada insieme finisce qui e che, divaricata, mai più si riunirà. Mi dispiace”. Lui non ha parole. Aiutandola di nuovo con quell’ingombrante valigia, spera solo che lei si sbagli. L’accompagna sul terrazzino, il treno si ferma, lei scende, lui le porge il bagaglio, richiude la porta, riguadagna il suo posto, quello occupato prima da lui e poi da lei, chiude gli occhi, piange. Forse è rimasto contagiato dalla sensazione di lei, forse “sente” anche lui che non la rivedrà più. Piangendo in silenzio, riesce a fare una sola riflessione, un’amara constatazione: pensando a lei, non sa (e mai saprà), con quale nome invocarla… Non si sono presentati!

Enzo Campobasso











 Redazione

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 07/02/2013 -- 07:56:18 -- Paolo

L'Autore sembra sperdersi nell'idea dell'amore, sognare. Il sogno lo affascina più della realtà. E lo racconta con semplicità, come se il sogno fosse la realtà.

-- 11/02/2013 -- 19:25:53 -- vincenzo

Siamo veramente certi che la nostra vita non sia un eterno sogno?

 
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