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14/01/2013

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INVERNO INTORNO AL FUOCO: LIEVITA LA MEMORIA

Clicca per Ingrandire In alcuni paesi del Gargano si accendevano per le strade i falò per onorare i quattro Santi: S. Antonio Abate, S. Sebastiano, S. Ciro e S. Biagio. In onore di questi martiri alla data della loro morte venivano raccolti di porta in porta ceppi e legna, come per la questua, simbolo di mortificazione sia per chi li chiedeva sia per chi li donava. Il falò rappresentava simbolicamente l’elemento che distrugge il male per far rinascere il bene. I ricordi della mia fanciullesca che sto per rivivere mi fanno gustare e rivedere strade, corti e scalinate del mio paese, luoghi per me vere palestre dove ho appreso le prime lezioni di vita. I ragazzi oggi non conoscono queste tradizioni, perciò le raccontiamo, perché nobilitano le nostre origini, il nostro presente, i nostri luoghi e arricchiscono la nostra cultura. E i promotori che mantengono vive le tradizioni sono veri benefattori.

Le cerimonie come quella del falò erano un tempo gradite a noi ragazzini, sia per il loro folclore sia per il calore e l’entusiasmo della gente che di comune accordo si adoperava per rendere gli avvenimenti affascinanti e gioiosi. Oltre a trasmettere allegria diffondevano sentimenti di fratellanza. Intorno a quei fuochi si mangiavano granoturco e fave abbrustoliti, mentre i ceci venivano fatti alla marinara con bucce di arance, foglie di alloro e sale. Si cuocevano nella sabbia calda dopo averli scottati su e giù nell’acqua bollente, avvolti in uno straccio per circa due minuti recitando due volte il Padre Nostro in latino.

Le serate erano allietate da canti paesani e stornelli, a volte provocatori, allo scopo di sfottere bonariamente i partecipanti di altri falò. Per la buona riuscita degli scherzi la gente si mascherava per non essere riconosciuta, così le serate trascorrevano in vere e spensierate competizioni rionali. Si dava così inizio al carnevale. I benestanti facevano ammazzavare in quel periodo il maiale (foto del titolo, anni ’50 in fattoria di S. Marco in Lamis; ndr) e mettevano a disposizione una buona parte della carne da arrostire sulla brace del falò. Ricordo ancora i forti grugniti che le bestie emettevano, coi musi legati, prima di essere scannati con l’enorme coltello. Si dimenavano anche se trattenuti da più uomini forzuti. Ho visto qualche bestia riuscire a scappare con il coltello piantato ancora nella gola…

Noi ragazzi eravamo sconvolti da quegli episodi e ugualmente ci recavamo nei luoghi dove avveniva l’uccisione per curiosare e partecipare alla rotonda serale del fuoco e gustare il pezzo di arrosto quando ci veniva offerto. Alla bestia morta venivano strappati i peli del dorso per farne pennelli, poi veniva bagnata la pelle con acqua bollente e rasata completamente con coltelli ben affilati - peli residui e unghie dei piedini venivano bruciati con la paglia - poi si appendeva aperta a metà. La testa, decapitata, veniva posta sul tavolato con un’arancia fra i denti, mentre parte delle budella venivano pulite e fatte asciugare per riempirle di carne tritata e farne salsiccia, e le altre riempite di sangue misto di aromi, cacao, zucchero, pezzettini di grasso da bollire nell’acqua.

Il brodo dell’acqua veniva distribuito ad amici e parenti per cucinare una specie di polenta dolce. Fegato, polmoni e cuore si cucinavano con aglio, olio, sale e alloro, mentre l’involucro che li conteneva serviva per fare involtini ripieni da mettere nel ragù. La bestia veniva sezionata e divisa in ogni sua parte: cotenne, orecchie, piedi, lingua e muso ricoperti di sale venivano conservati in luogo fresco in contenitori di argilla, le cosce ricoperte di sale e pressate per un certo periodo da enormi sassi si asciugavano appese in luogo fresco e buio per trasformarle in prosciutti stagionati. Il lardo con ancora la cotenna veniva salato e appeso, e quello misto a carne si arrotolava farcito di sale, peperoncino e rosmarino per farne pancetta.

I nostri antenati nelle lunghe serate invernali ci tenevano uniti intorno al camino o intorno al braciere raccontandoci favole (le pubblicheremo a breve; ndr) che parlavano di spirito di sacrificio, educazione, lealtà, bontà; vere lezioni di vita impartite con dolcezza che entravano nelle nostre ingenue coscienze e facevano germogliare il senso del rispetto verso il prossimo. E come sempre, a chiudere, il mio solito omaggio in poesia.


F I L A S T R O C C A

Il porcellino di S. Antonio
ingannò il demonio:
con al collo la campanella
aggirò la sentinella
nell’inferno s’intrufolò
e tutto il giorno lì restò.
Tra i diavoli fu scompiglio
non trovando il nascondiglio,
chiesero al Santo per cortesia
affinché se lo portasse via
e Lui col bastone
gli rubò il tizzone.

Il diavolo si arrabbiò
E contro i due scagliò
il coltello al porcellino
e al Santo un carboncino:
per colpa del demonio
ecco il fuoco di S. Antonio.
Il porcello non fu sepolto
ma squartato in ogni parte,
per mantenerlo a tante lune
fece la carne a salume
rase i peli coi coltelli
e ne confezionò pennelli
col sangue la farinata
col lardo la pomata.

La gente di ogni loco
fa cerchio intorno al fuoco,
danza e canta mascherata
per non essere individuata,
beve vini saporiti
fa legumi abbrustoliti,
carne arrosta con il sale
fino a tutto Carnevale.
E così passa l’inverno
con il diavolo all’inferno.
Viva viva Sant'Antonio
che ha gabbato anche il demonio.

Antonio Monte

 Redazione

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 15/01/2013 -- 09:21:51 -- vincenzo

Bella questa iniziativa di Antonio Monte, di raccontare le vecchie costumanze di paese. Peccato che i giovani non amino più le tradizioni (però, devo dire, a S.G.R. i falò sono sempre molto animati da giovani e giovanissimi). Carina la filastrocca finale, in rima baciata (anche se in versi liberi) a cui è sicuramente saltato un verso rimante con "parte" nella 2^ strofa!

 
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