Testa

 Oggi è :  21/12/2024

Benvenuto  nel Giornale

CERCA GLI ARTICOLI :

  

Testo scorrevole
Sx

  L'ARTICOLO

06/11/2012

Dimensione carattere normale  Ingrandisci dimensione carattere  Ingrandisci dimensione carattere

Segnala

NINA, PRIMO AMORE

Clicca per Ingrandire Erano i primi anni cinquanta, per l’esattezza era il 1952. Gli echi della guerra non s’erano ancora del tutto quietati, però è anche vero che grandi rumori nel paesino (Rodi Garganico, giusto per non tacerlo) non si erano sentiti. Se si eccettuano due fatti: uno, veramente straordinario come la caduta di un bombardiere statunitense al “Piano” (un agro seminativo occidentale, al confine con il comune di Ischitella) che mobilitò tutta la popolazione a processionare (per curiosità alcuni, altri per trarne eventuali vantaggi), dal paese verso quella zona; l’altro, i passaggi a volo radente, per pura ricognizione, dei caccia (ma Andrea nemmeno ricordava o sapeva se si trattava di aerei americani o tedeschi o italiani), a Rodi non era avvenuto assolutamente nulla.

C’erano stati caduti, ma lontano. Il più illustre era anche il più leggendario: Luigi Rovelli, Tenente Pilota, ammiratissimo da tutti, amato dalle donne, rampollo un po’ scavezzacollo di pregiata famiglia, immolatosi nei cieli dell’Egeo, dopo aver fatto precipitare una caterva di aerei nemici, tale che molto meritata fu la medaglia d’oro al valore, onore riservatogli ‘post mortem’ nella toponomastica sia nel paese natale sia in diverse località del Gargano e nello stesso capoluogo di provincia, e con l’intitolazione del più importante aeroporto di Foggia, prima aeroporto strategico di guerra, poi apprezzatissima scuola di volo (Università del Volo, l’avrebbero chiamata), poi ancora (siamo alla fine del secolo 20°) sede di uno stormo operativo, già operante nel Salento. Altra cosa che ricordava erano i giorni dell’Armistizio quando, nei pressi dell’allora giovane pino del Belvedere, vedeva cataste di moschetti e baionette conferiti dalla gente che li teneva ben nascosti nella propria abitazione (o in altri luoghi inaccessibili a estranei).

Era estate, in coincidenza della festa della patrona del paese, la Madonna della Libera, veneratissima non solo dai rodiani ma anche da altra gente garganica e da gente fuori del Gargano e fuori della provincia addirittura. Duravano i festeggiamenti, e tuttora durano, dal primo al terzo giorno di luglio, giorno in cui si festeggia San Cristoforo, patrono dei naviganti (e dei trasportatori in genere, ma questa, probabilmente, è “aggiunta e variante” di tempi più vicini a noi). La nonna materna di Andrea, lei stessa molto devota della Vergine rodiana (la cui icona, secondo la leggenda proprietà di Saraceni in transito per quel mare, volle caparbiamente rimanere a Rodi, appesantendo per ben tre volte la nave su cui era caricata, in modo che non potesse ripartire e volando di notte verso il paese, fino a quando i Saraceni non si decisero a lasciarla dove attualmente si trova il relativo santuario, ricchissimo di molti e talvolta curiosi ex-voto) non mancava mai di farsi ospitare dalla figlia e dal genero per l’evenienza.

Quell’anno, contrariamente al solito, non era venuta sola; aveva condotto con sé una ragazza, figlia di un amico di uno dei suoi figli. Nina si chiamava la ragazza, ed era di una bellezza genuina, naturale (rara se non inimmaginabile ai nostri giorni). Era castana di capelli, che le cadevano circellati sulle spalle e aveva un visino incredibilmente fresco, vellutato, ma con la pelle quasi diafana. Era un amore, un sogno! Andrea l’accolse con un poco di freddezza, anzi, con freddezza senza “poco” (non aveva tutti i torti: la casa non era molto ospitale, specialmente per una ragazza simile, che pareva più vicina a una dea che a un essere umano), ma poi la dolcezza, il garbo, i gentili modi di lei finirono per avere il sopravvento sulle sue riserve e lui l’accettò. La casa, oltretutto, era anche piccola. Andrea dormiva sopra una sorta di divano, Nina nel lettone, verso la “sponda” destra, vicino alla nonna che, all’altro lato, teneva la figlia, mentre il papà di Andrea aveva trovato sistemazione in una branda messa su nel retrobottega.

Non era l’optimum, ma si poteva accettare. Del resto, nessuna smorfia, nessuna “smanceria” da parte della ragazza. Si vedeva che, pur essendo nata in un capoluogo di provincia delle Marche, non era stata educata con i guanti gialli, non la si era fatta vivere nella bambagia o sotto una campana di vetro. Il padre era originario del sud, di una cittadina della Daunia, ricca di ulivi e di vigne. Dopo la licenza elementare, aveva lavorato in officina meccanica dove aveva avuto compagno uno zio di Andrea, si era poi arruolato in Finanza (o in Polizia: Andrea non lo aveva capito bene, ma non si preoccupò di approfondire la questione, che non gli stava minimamente a cuore) ed era finito lassù, dove aveva sposato un’indigena, che, come unica erede, gli avrebbe dato Nina.

La prima notte, Andrea non dormì. Non certo perché stava scomodo nel divano: era quello il suo posto abituale, vi era certamente abituato. Non dormì perché non riusciva a credere che nel lettone (dove aveva dormito per tantissimo tempo, dove spesso era tornato fino a pochi anni prima, con la scusa di vedere strane ombre o di sentire strani rumori) dormisse, proprio dal suo vecchio lato, una bella e dolce ragazza, una ragazza che non aveva immaginato (e non avrebbe mai potuto immaginare) che ci sarebbe stata. Quando pareva che stesse per addormentarsi, riapriva gli occhi, si stropicciava, si pizzicava, per ritornare sveglio, per non addormentarsi. Qualche volta pensava anche che, a quel posto, poteva esserci una sorella. Poi scartava l’idea; gli piaceva di più che ci fosse quell’estranea. Se ci fosse stata una sorella a lui cosa sarebbe importato? Che ci avrebbe guadagnato? Importava, invece, ed era veramente importante, che ci fosse una ragazza, quella bella ragazza di nome Nina, che gli aveva riempito il cuore di tenerezza. Nina che non aveva fatto (e non avrebbe fatto, soprattutto) nulla per meritarsi tutto quel trasporto, tutta quell’attenzione, tutto quel sentimento, tutte quelle pene. Ma anche questo è “dopo”.

“Diavolo” pensava “non ho mai visto una ragazza così! Non ne esistono forse a Rodi? Che avrà questa di tanto particolare da riempirmi di emozione, da farmi tremare, da farmi sussultare il cuore? Eppure, non è più bella di Giulia, non è più bella di Gabriella, non è più bella di Teresa, e di qualche altra ancora!” Non riusciva a capire, non riusciva a indovinare, non sapeva, essendo troppo giovane, che l’innamoramento non ha giustificazioni, che tutto avviene in modo irrazionale, che nessuno può mai rendersi conto di quel che avviene nel proprio animo, nella propria mente, nel proprio cuore, tanto meno nella propria sfera psicofisiologica. E’ un mistero mai risolto e irrisolvibile. Sapeva solo di essere preda della sofferenza. Perfino il suo “esserino” gli dava fastidio, un esserino che testardamente rimaneva sveglio, più sveglio di lui stesso, e aveva voglia di combattere contro le mutande, contro il pigiama, contro il materasso, contro tutto! Il cuore gli batteva forte, la mente percorreva mille e mille chilometri all’ora, anzi, al minuto secondo, e non pareva volersi arrestare.

Verso l’alba, sceso al livello dei sogni, prese un pochino anche a dormire. Ma non doveva aver dormito molto quando la madre lo svegliò per la colazione, atto che preludeva a una discesa al mare per un bagno di sole se non per un bagno in mare (alla spiaggia, i rodiani andavano solo dopo le feste, anzi ci andavano intorno alla metà del mese di luglio, se non dopo, quando non solo l’aria e la sabbia erano calde, ma anche l’acqua del mare). Si sarebbe voluto schiaffeggiare, Andrea, per essersi addormentato. Ma non lo poteva certo fare alla presenza di Nina. D’altra parte, non era anche vero che non vedeva l’ora di scendere in spiaggia per poter vedere come appariva Nina in costume? Pazienza, allora, per aver dormito un po’, ma ora bisognava fare in fretta, mettersi il costume e correre.

Nina non era nulla di particolare in costume. Aveva belle gambe giovanissime, aveva delle immaginabili belle “meline” sotto il busto del costume monopezzo blu notte, come allora usava, la pelle diafana anche nel resto del corpo, tutto normale, “regolare”. Solo conservava un alone, un’aura che Andrea continuava a non sapersi spiegare. Finì presto, comunque, per non pensarci più: c’era solo da perderci la testa. Quel che gl’importava era che Nina gli piaceva. Bisognava solo vedere se lui piaceva a Nina. Ma come si faceva, come si doveva fare! Che ne sapeva lui di ragazze, di donne, dei loro umori, dei loro comportamenti, dei loro messaggi da captare, probabilmente, dei segnali che lui non conosceva, non sapeva immaginare?

Giunti sulla spiaggia, la prima cosa che fece fu togliersi i pantaloncini, prendere la rincorsa e buttarsi a capofitto nell’acqua calma e azzurra del mare. Era fredda, ma per Andrea, che aveva fatto il bagno pure nel mese di giugno e una volta si vantava di averlo fatto a fine febbraio, era più che sopportabile. Abile com’era in mare (sapeva nuotare, seppure senza stile, già a due anni di età), si preoccupò subito di catturare qualche tellina (o quel che gli capitava). Gli capitò un “lupino”, una sorta di piccola “vongola”, un po’ più tonda di quest’ultima, un po’ più piccola, ma egualmente appetitosa, gustosa. L’aveva riconosciuta da un ciuffettino di erba che pareva nascere dalla sabbia ma in realtà proveniva proprio dal “lupino”. Uscì a grandi falcate, in modo trionfale, con il molluschetto tra le dita della mano destra. “Tieni, Nina” disse, dopo averlo aperto con la forte unghia del pollice destro, “senti com’è saporito”. Nina lo prese, ma non pareva convinta di volerlo o doverlo mangiare. Alla fine, o per coraggio o per decisione, portò il mollusco alla bocca e aiutandosi con la lingua tirò fuori dalle valve il ghiotto frutto. Lo tenne un pochino, per così dire, in punta di bocca, poi si decise a usare i denti e gustarne il sapore. “Che buono!” esordì (‘esordì’, perché in effetti era la prima volta che Andrea la sentiva parlare, era la prima volta che la vedeva aprire la bocca). “Non pensavo fosse così buono, lo volevo sputare, se ti devo dire la verità. E’ facile trovarli? Come si catturano? Corrono quando ti vedono?”

“Beata ignoranza!” disse Andrea. “Ogni essere, al mondo, ha la propria abitudine, i propri comportamenti: basta stare con gli occhi aperti a osservare il fondo del mare per scoprire come si comportano i lupini, i granchi, i cannolicchi e altri abitanti della sabbia. Vuoi vedere con i tuoi occhi? Vieni con me”. E Nina lo seguì, facendosi tenere per mano. Giunti ad alcune decine di metri dalla battigia, salirono il gradino della secca e s’inoltrarono un po’. Per fortuna, come detto, l’acqua era piatta, trasparente. Sempre tenendo Nina per mano, Andrea prese a camminare parallelamente al bagnasciuga. Dopo un po’, un ciuffetto d’erba. “Ci siamo!” disse, ma quasi sottovoce (in realtà sapeva benissimo che il lupino non sentiva e non si sarebbe insabbiato per questa ragione). Voleva solo fare scena. “Vedi quel ciuffo di erba là sotto? Ebbene, lì c’è un lupino. Prendilo. Non avere paura, non morde”.

Nina si piegò, allungò il braccio, aprì il palmo della mano e poi lo richiuse. “L’ho preso, l’ho preso!” gridò tutta trionfante e a voce così spiegata da fare allarmare la nonna, seduta sulla sabbia, completamente vestita. “Come si apre? Voglio mangiarlo subito”. Andrea le mostrò come si apriva, ma nemmeno lui ci riuscì, perché, nel frattempo, anche le sue unghie erano diventate inidonee ad aprire le valve del mollusco: si erano ammorbidite con l’acqua. Andrea, allora, fece una cosa molto semplice: prese una pietra dal fondale e, tenendo il mollusco nella mano sinistra, gli assestò un preciso e forte colpo con la mano destra. La valva che aveva ricevuto il colpo si ruppe, ovviamente, ma Andrea, con calma, con meticolosità, ne asportò i frammenti, lavò il resto nell’acqua (allora si poteva ancora fare: l’acqua era pulita, sterile, io stesso ricordo che da ragazzo spaccavo un limone e lo immergevo nel mare e poi lo succhiavo, continuando l’operazione fino a quando non avevo finito di mangiare il frutto) e lo porse alla ragazza. Un po’ di titubanza fu normale, ma alla fine il mollusco fu gustato, ancora più del primo.

Il ghiaccio era rotto. Cominciarono a cercare insieme, gareggiarono a chi individuava più lupini. Andrea le insegnò anche a individuare i cannolicchi. Le fece notare che questi, a differenza dei lupini, si mostravano con una sorta di piccoli occhietti, come due brillantini incastonati in un anello. La tecnica di cattura era diversa. Bisognava afferrare delicatamente questo mollusco tra l’indice ed il medio, tenerlo stretto e tirarlo fuori con decisione ma lentamente e con delicatezza. Tirarlo bruscamente equivaleva a perdersi il meglio del mollusco, che se ne andava sotto la sabbia profondamente, lasciando il “pescatore” con le valve vuote della lunga conchiglia in mano. Nina ebbe fortuna nell’individuarne alcuni, ma la tecnica non era adeguata alle esigenze e non ne tirò fuori nessuno intero. Per Andrea questa questione non aveva alcuna importanza, importava solo che potevano stare insieme, che facevano le stesse cose, che lui la potesse sfiorare, in un modo o nell’altro. Le accarezzava le mani, le toccava le braccia, la toccava, fingendo distrazione, dovunque capitasse. Presero a giocare, a schizzarsi con l’acqua, a tentare di sommergersi vicendevolmente, familiarizzarono, arrivarono a sentirsi vecchi conoscenti, vecchi amici.

La nonna di Andrea lavorava all’uncinetto, non pensava ai due ragazzi: a lei bastava vederli giocare, sentirli ridere, sentirli gioire. Quando però il sole fu allo zenit, nonnina si fece sentire: chiamò alternativamente Andrea, poi Nina, poi ancora Andrea, perché pareva che i ragazzi fossero improvvisamente diventati sordi. Alla fine Andrea dovette cedere e fece la parte del ‘fratellino’ maggiore.

“Andiamo, Nina: la nonna ci sta chiamando. Si vede che ha fame. Tu hai fame?”
“Io no, e tu?”
“Io neppure, ma dobbiamo andare, specialmente se vogliamo tornarci di pomeriggio, anche se sarà impossibile pescare, per via della diversa inclinazione dei raggi solari che riduce la luce sul fondo marino”.
“Hai ragione, andiamo” concluse Nina.

Da quel momento, quante e quali attenzioni da parte di Andrea! Nina pareva diventata una ragazza bisognosa di aiuto e di cure, pareva quasi che la trattasse come una handicappata. Se avesse potuto, se la sarebbe portata a passeggio tenendola in braccio. E guai se qualcuno diceva una parola che a lui non paresse sufficientemente dolce! Rolando, paladino di Francia, al cospetto di Andrea sarebbe entrato in ombra. E, con fare sempre protettivo, nei giorni che seguirono Andrea cominciò a circondarla di tanta affettuosità, raddoppiò le sue attenzioni, iniziò a far sentire il calore della fiamma che lo bruciava. “Ti voglio bene, sai? Mi sono innamorato di te, come un matto. Vorrei già piangere per quando te ne andrai. I giorni sono pochi. Chissà quando ti rivedrò un’altra volta. Tornerai l’anno prossimo? Penserai a me quando sarai nella tua città, quando sarai a scuola? Com’è tuo padre? E tua madre? Permetteranno che io ti scriva, ti faranno leggere le mie lettere?”. Era un assillo Andrea, ma chi, passato per quella medesima esperienza, non lo avrebbe capito? Solo quelli che lo avevano dimenticato non lo avrebbero capito; gli altri, sicuramente sì.

Nina, in verità, a quella valanga di domande, sempre serrate, non rispondeva, non faceva in tempo a rispondere. Come poteva? Non c’era uno iato fra una parola e l’altra, non c’era spazio nemmeno per un monosillabo, figurarsi per una risposta di un certo numero di sillabe! Inoltre, doveva essere molto meno smaliziata di Andrea, anche se erano coetanei e le donne, a tredici, quattordici anni, sono in genere già delle donnine apparentemente giudiziose e comunque sembrano sapere molte più cose e molto più approfonditamente dei signori maschietti. Nina era ingenua. Si lasciava baciare, ma non sapeva rispondere, pareva stare al gioco, ma non sapeva giocare. Andrea, per la verità, non pensava molto a queste cose; lui progettava solamente. Progettava di partire per andare a trovarla, progettava eventuali incontri nel paese comune delle nonne, materna di lui, paterna di lei, ma non sapeva che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare o addirittura l’oceano, le montagne, il ghiaccio, il fuoco, l’invalicabile o il semplicemente impercorribile nulla. Lui amava, amava, parlava, parlava; lei ascoltava, semplicemente ascoltava, senza saper nulla dire. Forse non amava, forse non sapeva amare, forse non sapeva di amare, non sapeva di saper amare. Non ci furono intimità profonde. Andrea l’accarezzava, faceva sentire il suo calore, la toccava un po’ dappertutto; lei era passiva, subiva, apparentemente compiaciuta, in silenzio, qualche volta trepidante, il più delle volte in modo quasi insensibile.

La notte del due e la notte del tre luglio furono lasciati andare a vedere i fuochi pirotecnici a mare (erano tempi in cui non esisteva né pericolo di droga né di altro). Gli occhi di Nina erano luminosi, gioiosi, sognanti. Si lasciò stringere forte nelle braccia di lui, dicendo che avvertiva un po’ di freddo; Andrea, da parte sua, non si fece ripetere l’invito una volta di più: non gli pareva vero che lei gli chiedesse di proteggerla contro il freddo, come aveva dichiarato (o contro la paura, non dichiarata, che molte persone giovani avvertono allo sparo dei mortaretti). E soprattutto non gli pareva vero di stare in intimità con quel giovane corpo emanante un profumo di pelle fresca, gratificante, anche se nel contempo conturbante. Forse Andrea avrebbe volentieri approfittato dell’occasione per farla sua, ma la buona educazione ricevuta, che gli imponeva rispetto, la mancanza di circostanze veramente favorevoli (non poteva chiederle di allontanarsi tra gli scogli che avrebbero dato loro sufficiente ombra anche in presenza di eventuale luna piena), tutto concorse sfavorevolmente per il giovane, che non potette sapere più di tanto di Nina.

La settimana finì in un baleno. Pronti i bagagli fin dal mattino dell’ultimo giorno, nel pomeriggio, aiutate da Andrea e dalla madre, le due donne (la nonna e Nina, cioè) presero la strada per la stazione, salirono sul treno e presto sparirono ingoiate, con tutto il convoglio, dalla galleria a circa un chilometro verso ponente. Un ponente dal quale tanti treni, successivamente, sarebbero arrivati senza che qualcuno - povero Andrea! - riportasse a Rodi la sua Nina. Andrea, secondo il suo proposito, scrisse, scrisse tante e ripetute lettere, senza ricevere mai riscontro; non mise in atto l’altro proposito, quello di recarsi nelle Marche, né quello di tentare un incontro “in campo neutro”, per così dire, con Nina, e alla fine fece finta di dimenticarla. In realtà, divenne quasi misogino: non corteggiò, non s’innamorò, visse la sua vita in silenzio, fino a quando non gli capitò, ormai maturo e rimasto orfano, una strana avventura.

Ma questa è tutta un’altra storia.

Enzo Campobasso

 Redazione

 

Dimensione carattere normale  Ingrandisci dimensione carattere  Ingrandisci dimensione carattere

Segnala

 

 
 

  Commenti dei Lettori:

-- 10/11/2012 -- 08:18:42 -- vincenzo

PER FUGARE DUBBI SORTI, dichiaro che la storiella raccontata non riguarda la mia vita, se non perché l'ho recepita da un amico. Riferimenti a fatti e/o persone reali sono assolutamente casuali, in quanto potrebbero essere frutto di fantasia del primo relatore. L'ambientazione a Rodi è scaturita dal mio desiderio di citare questa località, culla della mia infanzia-adolescenza; il luogo reale, se reale è la storiella, non mi è noto. Insomma, nulla di autobiografico, soprattutto.

-- 11/11/2012 -- 19:44:34 -- Paolo

Chi vede capelli 'circellati' è certamente un micofilo. Chi gioca con l'amore tra lupini e cannolicchi è certamente un poeta.

 
Dx
 

ACCESSO AREA UTENTI

 

 Username

Password

 

Area Privata

Logout >>

 

     IL SONDAGGIO

 
 

VIDEO DELLA SETTIMANA

ESTATE E SANITA

 

STATISTICHE .....

Utenti on line: 1841

 
 
Inferiore

powered by Elia Tavaglione

Copyright © 2008 new PUNTO DI STELLA Registrazione Tribunale n. 137 del 27/11/2008.

Tutti i diritti riservati.