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01/08/2012

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“PANNOCCHIA”

Clicca per Ingrandire “Pannocchia” l’aveva ribattezzata, non la chiamava mai per nome. Da parte sua, lei non ne era affatto scontenta, non solo perché era stato lui ad inventare questo piacevole nomignolo, ma anche perché il suo nome non tanto le piaceva. Per stare alle regole del paese, alla tradizione per intenderci, essendo primogenita ed avendo pronosticato il medico condotto (che, a quei tempi, era un tuttofare) che non ci sarebbero state altre nascite, i genitori l’avevano chiamata “Alda” da “Aldo”, suo nonno paterno. Tutti però la chiamavano “Dina” da “Aldina”. “Pannocchia”, non solo perché il colore dei capelli, spartiti al centro e terminanti in due lunghe trecce robuste dietro la nuca, era quello delle pannocchie mature, ma anche perché era carnosetta, proprio come i chicchi del granoturco. Sembrava impastata con panna e miele.

Com’era bella, Dina-Pannocchia! Aveva due occhioni azzurri come il cielo di primavera, una pelle di rosa tea ancora in boccio, un nasino piccolo e ben dritto tra le guance che, al minimo complimento, s’imporporavano d’un rosso così intenso da sembrare vicino allo scarlatto. E com’era dolce! E quanto, poi, ingenua, naturale, credula, con il cuore aperto a tutto ed a tutti! Ripeteva spesso un ritornello, rubato ad un popolare stornello cantato dalle donne durante la raccolta delle olive o delle arance nelle campagne del paese. Diceva: “Fiore di rosa, prima eravamo amici, ora siamo sposi!” riferendosi al fatto che si sapeva fidanzata ad un amico, che, in realtà era solo il fratello di una compagna di scuola di cucito.

Lui, Lorenzo, ne rideva e mostrava di essere contento. In realtà, non gli importava nulla di quello che pensava lei, delle sue convinzioni, della sua credulità. Lui si era fidanzato con lei non seriamente e nemmeno per scherzare; aveva brigato tanto con la sorella perché Dina gli fosse presentata e potesse quindi fidanzarsi, con un disegno ben preciso: fare in modo che, rotto il fidanzamento, la ragazza, per la delusione, rompesse anche l’amicizia con la sorella. Non voleva, in sostanza, che la sorella frequentasse quella ragazza, che aveva estrazioni sociali che gli parevano inadeguate a quelle della sua famiglia.

Ma chi erano i genitori di lei? Il papà era un onesto pescatore, proprietario di una piccola barca a remi che, nel tempo libero o quando era maltempo, badava anche alla conduzione di una campagna a coltura mista, ulivi ed agrumi, con qualche albero da frutto; la mamma, un’onesta casalinga, di origini anch’esse popolari. Insomma tutti onesti, proprio come i genitori di lui: casalinga lei, piccolo commerciante lui. Come faceva, Lorenzo, a sentirsi addosso quarti di nobiltà, questo non si sa. Non lo sapeva, in verità, nemmeno lui che, tutto sommato, era conscio di essere un figlio del popolo e simpatizzava per la sinistra moderata del dopoguerra. Si era però messo in testa che l’amicizia tra la sorella e la povera Dina doveva finire!

All’epoca, Lorenzo non viveva al paese, stava fuori per l’università. E, non distando molto la sede di questa dal paesello, tornava puntualmente a casa ad ogni fine settimana, per incontrare la bella “Pannocchia”. Lei, per poter uscire, teneva sempre pronta la scusa di recarsi a trovare l’amica. In realtà, ci andava per Lorenzo. Scherzavano i giovani, conversavano, progettavano il loro futuro e ci scappava qualche furtiva carezza. Non si poteva ottenere altro sotto gli occhi vigili della madre di lui che, essendo una mamma, si comportava come se fosse la mamma di lei. Per ottenere qualcosa di più, qualche carezza un po’, come dire, più “intima”, più “calda”, se ne andavano al cinema. La “cognatina”, in quel caso, era pienamente complice e badava molto bene a non distrarre il proprio sguardo dal grande schermo, di modo che i due piccioni potessero tubare in santa pace.

Quando ripartiva per la città universitaria, le due ragazze riaccompagnavano il giovane, puntualmente. Ed allora, Lorenzo e Dina si allontanavano un poco dalla stazione, mentre Filomena (così si chiamava la sorella di Lorenzo), rimaneva di guardia alla valigia. Superfluo dire che, seppure molto in apprensione per quel che poteva succedere se occhi indiscreti li avessero scoperti ed avessero poi riferito a chi di dovere, al buio, dietro la siepe, i “rapporti” diventavano più arditi, più teneri, più caldi. Il coro dei grilli, poi, era, per loro innamorati (lui lo era davvero, anche se i suoi disegni erano malvagi, da autentico vigliacco), una musica molto meno monotona di come in realtà era. Si sentivano in paradiso, assaporando il dolce frutto dell’amore, della passione. Si sarebbero volentieri lasciati andare ben oltre il limite teorico di quel che pareva lecito. Più che annusare, avrebbero morso quel frutto, a pieni denti, e se ne sarebbero satollati. Sembrava a loro, invece, non di mangiare arrosto e pane, ma solo pane intriso di fumo, anche se così profumato da aprire lo stomaco ai più incalliti anoressici!

Ma il paese era quello, i limiti imposti dalla buona “creanza” erano invalicabili: dovevano soffrire, vittime di ciò che loro stessi sentivano di essere in quella cultura. Il frutto del matrimonio doveva essere consumato la prima notte del matrimonio, cui si doveva pervenire “illibati”, se illibati si potevano considerare due individui che, nel pensiero, si erano posseduti già mille e mille volte. Gli atti materiali che caratterizzavano il rapporto, non portato alle estreme conseguenze, lasciavano intatto il “principio”.

Ma perché Lorenzo, invece di seguire le sciocche leggi del paese, non ascoltava piuttosto il proprio cuore? Era innamorato di Dina, ne era preso appieno! Lei era troppo bella, perfino per lui che era colto e che ben presto si sarebbe laureato. Era un angelo di ragazza, un angelo di bellezza, innanzitutto, un fresco fiore di prato, una turgida rosa nella rugiada dell’alba, un favo di miele dolcissimo, un’allodola, una colomba, era tutto ciò che di bello e di buono potesse desiderare il cuore di un poeta innamorato.

E ad un poeta “Pannocchia” paragonava Lorenzo, un poeta capace di farle cavalcare montagne di sogni, che la faceva volare col vento, la faceva salire in alto in alto, in alto come un aquilone ed ancora più su, tra le bianche nuvolette disegnate nell’azzurro del cielo, con frange a volte rotonde, a volte frastagliate o dentellate come larghe foglie di vite o di acero o di tiglio. Si sentiva il cuore uscire fuori dal petto e le veniva l’istinto di tener pronte le mani per afferrarlo, trattenerlo e ricacciarlo al proprio posto.

“Fiore di rosa” ripeteva lei, di tanto in tanto, in apparenza per cantare (in realtà, forse, per darsi coraggio o per restar convinta). Stravedeva per Lorenzo, non le pareva vero che lui, futuro professore, si fosse innamorato di lei, che l’amasse così intensamente, che avrebbe fatto di lei sua moglie, la mamma dei suoi figli! Si vedeva al suo braccio a passeggio per il paese, s’immaginava magari in altro luogo, in una grande città, si vedeva con i figli al parco giochi, ad un parco giochi che poteva solo immaginare non avendone mai visto uno, ma non irreale, non improbabile, in una supposta grande città dello Stivale, un capoluogo di provincia o di regione od una capitale, come Roma, per esempio.

Sognava, sognava. E quante lettere gli scriveva, anche se piene di errori di grammatica e di sintassi! Lettere con due “esse”, solari e sanguigne, sempre calde, affettuose e cariche di riconoscenza per essere stata scelta fra tante altre ragazze, che soggettivamente od oggettivamente vedeva più belle, più ricche e di ceto più elevato di lei. Povera “Pannocchia”! Il suo sogno sarebbe rimasto per sempre un sogno, un sogno irrealizzato. Ancor prima di conseguire la laurea, Lorenzo smise di recarsi a casa settimanalmente, poi smise di farlo quindicinalmente, poi non si fece più vedere. Le lettere di Dina rimanevano senza risposta, Filomena non sapeva giustificare il comportamento del fratello, la stessa madre non sapeva che dire a quella ragazza che andava da lei a chiedere notizie ed ogni volta sembrava sciogliersi in fiumi di lacrime.

Un giorno cominciarono a ritornarle anche le lettere che scriveva: la dicitura era sempre la stessa: SCONOSCIUTO, AL MITTENTE. “Pannocchia” smise di scrivere, si chiuse in se stessa, non frequentò più la casa paterna di Lorenzo, ruppe, proprio secondo il disegno di lui, l’amicizia con Filomena, colpevolizzata senza colpa, non fu più vista a passeggio, non fu più vista in assoluto. Povera sciocca vittoria, quella di Lorenzo! Dina, la “Pannocchia” che pure amava teneramente se non sinceramente, si trasferì, senza che nessuno se ne accorgesse per molti anni, in una città di mare del centro Italia, conobbe un giovane ammodo, si sposò, ebbe una nidiata di bei figli, maschi e femmine, non tornò mai più al paesino, se non per l’estremo saluto ai vecchi genitori.

Lorenzo, fatto un infelice matrimonio, senza la gioia di un figlio, avrebbe vagato di città in città per trovare una pace che non avrebbe mai più trovata, nemmeno nella tomba: la perdita della tenera dolce “Pannocchia” non gli sarebbe mai più stata ripagata. Da nessuna donna al mondo!

Enzo Campobasso

 Redazione (foto libero.it)

 

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