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15/06/2008

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I GIOVANI E LA CRIMINALITA ORGANIZZATA

Clicca per Ingrandire  Strano che nel luogo in cui viviamo, territorio all’apparenza tranquillo, si possa parlare di criminalità. E invece sì, il sistema illegale si è
storicamente definito in precise organizzazioni, ciascuna con proprie caratteristiche e radicamenti regionali. Fenomeni di criminalità organizzata esistono da più di un secolo in Sicilia con la “mafia”, in Calabria con la ‘Ndrangheta, in Campania con la “camorra” e di recente in Puglia con la “Sacra Corona Unita”. Il risultato? Emarginazione nel mondo del lavoro e della produzione.

Il salto di qualità di queste organizzazioni è l’inserimento in posti di rilievo nel traffico internazionale per accedere a capitali enormi e investirli nel mercato legale, mettendo fuori mercato imprese che operano nella legalità. Con enormi capitali si ottengono appalti pubblici a costi minori e si fa concorrenza illecita e impropria a chi opera onestamente. Ai settori mafiosi tradizionali si sono aggiunti: riciclaggio di denaro sporco, commercio di organi e immigrazione clandestina. I profitti di queste attività, ripuliti e riciclati, entrano nel circuito finanziario e producono altro denaro, usato per acquisti di immobili e imprese.

Un’analisi della Confcommercio afferma: il fatturato delle tre mafie arriva a toccare il 9.5% del PIL nazionale lordo, il che significa che senza “l’operato” dei mafiosi, il nostro livello di sviluppo sarebbe uguale a quello del Nord. E’ ciò che desidererebbero tutti, ma c’è chi di questa situazione approfitta. Lo sviluppo di queste zone non è mai convenuto allo Stato, ai politici di destra e di sinistra, perché avrebbe potuto portare a un “capovolgimento ideologico e di realtà” tra Nord e Sud.

Si è spesso affermato che la mafia esiste solo dove lo Stato non esercita i suoi poteri nel giusto modo, o per meglio dire dove non opera per niente. D’altronde, se non si semina bene, che frutti si pensa di raccogliere? Senza lavorare, senza cooperare non si giungerà mai a nulla, o solo per quel poco che basta a carpire la fiducia dei cittadini, e riuscire a salire al tanto desiderato Parlamento, per cercare di attuare i progetti demagogici sciorinati in campagna elettorale. Ma, come dimostrato varie volte, questo non accade, o accade solo in parte, e a volte finisce per peggiorare le cose. Quando lo Stato operò con la Cassa per il Mezzogiorno non gestì al meglio l’occasione, i ricavati andarono a imprenditori e politici collusi con la mafia. Dagli inizi degli anni ‘50 fino agli ‘80 i consistenti aiuti economici alle imprese del sud avvantaggiarono la criminalità organizzata con appalti e subappalti di lavori pubblici, mai portati a termine.

Vorremmo porre una domanda: perché tutto questo non è avvenuto al Nord? Perché lo Stato ha mostrato più attenzione alle regioni “cuore” dell’economia, trascurando quelle che sono d’impiccio e dando (a volte) “da mangiare” ai malavitosi pur di levarseli di torno? Gli appalti qui sono tutti in mano alla mafia. Mai fatta una legge che vieta i subappalti. La definizione più esatta della mafia la dette Tommaso Buscetta: un’organizzazione criminale, ma soprattutto un’organizzazione di “potere” poiché riceve collaborazione dallo Stato, e soprattutto, dagli uomini politici collusi.

Un’altra domanda sorge spontanea: perché per le attività legali non c’è stata la collaborazione, e per le illegali c’è stata e continua ad esserci? Falcone e Borsellino ebbero molta difficoltà a svolgere la loro funzione, visto che lavoravano quasi in un deserto, nel quale ogni tanto trovavano qualche oasi, qualche commissario coraggioso o un pentito disposto ad aiutarli. Scatenarono una sorta d’inferno per il sistema mafioso, erano quasi gli unici a preferire questa “guerra” lavorando all’Asinara (isola vicina alla Sardegna), dov’era difficile raggiungerli ed ucciderli. Una goccia d’acqua, assorbita inesorabilmente in un oceano fatto di ricatti e di sotterfugi.

C’è stato qualche altro “eroe” che ha cercato di combattere il “sistema mafioso”, per fare una fine che non meritava. Fra questi, Francesco Marcone, direttore dell’Ufficio del Registro di Foggia, uomo leale e onesto che, pur di non scendere a compromessi, fu ammazzato. Ma perché la mafia li ha uccisi? Per paura verso il movimento di ribellione che avrebbero attivato se non fossero stati lasciati soli, abbandonati. Ed è proprio l’abbandono, la mancanza di coraggio, che permette alla mafia di vivere e fare ciò che vuole.

Le leggi dovrebbero essere più dure contro i mafiosi, ma ci si chiede se lo siano veramente. L’unica legge che infligge una giusta pena ai mafiosi è la 41 bis. I mafiosi dovrebbero ricevere una punizione corrispondente all’ergastolo e all’isolamento. Però col tempo, questa importante norma, (ispirata da Falcone in occasione dei numerosi arresti dopo il pentimento del boss Buscetta), si è ammorbidita sempre più: si è visto come i capimafia in carcere diano ancora ordini. Ciò svalorizza l’impegno di Falcone e permette alla mafia di vincere la sua battaglia, che potrebbe ancora essere vinta dallo Stato se ci s’impegnerà nella lotta e si sarà più solidali, tentando di sconfiggere l’omertà, “il non vedo, non sento, non parlo”, senza paura di denunciare omicidi, tentate estorsioni, rapine, pizzo e altre attività illegali.

Certo, è difficile, se pensiamo alle conseguenze, il più delle volte disastrose, che provocano morti, ma restiamo dell’idea che “insieme si può”. Ciò che importa, a questo punto, non sono gli errori del passato, ma le strategie da utilizzare per combattere questo fenomeno, riscontrabili per l’appunto nel lavoro e nella legalità. Ultimamente ci si sta impegnando molto in questa lotta, ottenendo anche buoni risultati. Interessante è ciò che succederà a Palermo, già successo a Roma e Napoli: un bene confiscato a un mafioso diventerà una bottega per la vendita di prodotti di cooperative, sorte a loro volta su terreni confiscati, a dimostrare ancora una volta che, operando nel rispetto delle norme, si raggiungono scopi importanti. Infatti nella circostanza si è agito nel pieno rispetto di una legge sacrosanta: la 109/96, che prevede la confisca del bene al mafioso e il suo utilizzo a fini sociali. Ben vengano questi beni per effettuare esperienze di volontariato e formazione civile, legate alla volontà di diffondere la via della legalità e contrapporla a violenza e armi. Con queste non si ottiene niente, con la legalità si risolvono alcuni problemi legati all’esercizio dell’illegalità o dell’illiceità.

Questo è l’inizio di un percorso verso la legalità al cui termine deve esserci la sconfitta della criminalità e il relativo sviluppo del Sud. L’obiettivo di queste attività è proprio quello di far capire come la giusta gestione dei beni confiscati possa voler dire sviluppo per un territorio arretrato, ma il principale resta spianare la strada alla lotta alla criminalità organizzata, poiché è così che i giovani apprendono a contrastarne le attività illecite e come agire nel futuro per bloccarne l’operato.
Dovrebbe esserci anche più equità nei contratti di lavoro, maggiore disponibilità di posti di lavoro e quindi minore disoccupazione, soprattutto nel Sud. Un uomo, col bisogno di lavorare per mantenere la propria famiglia, è costretto ad accettare, a lungo andare, gli ordini della mafia, uccidendo e sequestrando persone, e un giovane che vuole aprire un’azienda è costretto a chiederle prestiti pagando interessi cento volte superiori. Fa ben sperare il diffondersi dell’imprenditoria giovanile con aiuti concessi dallo Stato ai giovani che vogliono mettere su un’impresa, evitando che si rivolgano a mafie sempre disposte a concedere loro consistenti prestiti usurai. C’è differenza notevole tra i due concetti: nel primo caso si tratta di un aiuto monetario a fondo perduto, al giovane non è richiesto nulla tranne la fiducia, nel secondo non possiamo accertare quello che gli succederebbe.

Come in tutte le battaglie, quindi, anche in questa ci sono armi, non violente però. Armi come la legalità, il lavoro, a cui aggiungiamo lo “Stato”. Sì perché, per cercare di “abbattere” il muro della mafia, bisognerebbe averne una presenza maggiore nei territori in cui queste organizzazioni prosperano. Si deve garantire la sicurezza dei cittadini, e proteggere i pentiti, importanti per alcuni casi investigativi. Senza il loro intervento, la lotta alla mafia sarebbe ferma.

Ultimo punto, o “arma” che dir si voglia, è la solidarietà. Ma come si fa a essere solidali se uno si ribella e l’altro no? Chi ha torto e chi ragione? Chi rischia la propria vita e chi no? Prima della solidarietà, occorre la forza e la volontà di reagire, rifiutare ogni sopruso e il coraggio di parlare, di ribellarsi. Questa volontà non dev’essere di uno su mille, ma di tutti coloro che, per disgrazia, entrano e non riescono più a uscire dal “giro”. Dopo questa ribellione, non violenta, pacifica, fatta di ideali, si può usare l’arma della solidarietà, che sconfigge la mafia, la porta alla morte lenta e inesorabile segnando la fine di un pezzo di storia negativa.
Legalità, solidarietà, lavoro, Stato, dunque. Se fossero guerrieri, sconfiggerebbero migliaia di nemici, non con la violenza, bensì con altre due parole: coraggio e vergogna.

Il coraggio che deve rifiorire negli uomini; la vergogna che dovrebbe colpire i mafiosi, esseri insignificanti che si credono invincibili, e non meritano comprensione, pietà, ma solo di essere paragonati a insetti. Anche se gli insetti, forse, si disgusterebbero di essere termine di paragone per i mafiosi!

 Redazione

 

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