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14/04/2012

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I PASSAGGI DEL MARE

Clicca per Ingrandire Tornato a casa, per prima cosa abbassa tutte le tapparelle. Poi siede. Nella penombra della stanza, il cono di luce gialla dell'abat-jour ne illumina i gesti. Con un tintinnio di vetri riempie il bicchierino fino all'orlo e lo butta giù in un unico sorso. Fa una smorfia di disgusto: non gli è mai piaciuto il sapore del cognac. Posa il calice e compone il numero di New-York. Dopo una decina di squilli, all'altro capo del filo, una voce femminile: “Hello, what can I do for you?”
“Hello, I am Mr. Martini and I’d like to speak to my son please.”
“I’d like to make sure he is available. Just a moment please.”
Inganna l’attesa tamburellando nervosamente con le dita sul tavolino. A un tratto: “Pronto, ciao papà! Scusa se ti ho fatto aspettare, ero in riunione”.
“Senti, devo dirti una cosa: tua madre...”

***

Con un grido, l’uomo lascia cadere i sacchetti della spesa. Slancia le braccia in avanti in un tentativo di presa inutile e disperato. Vano. Sente lo stridio tardivo dei freni e quasi contemporaneamente lo schianto sordo del corpo contro la lamiera. Un impatto terribile, senza appello. La donna viene risucchiata dal camion, che le sobbalza sopra col lato destro prima di arrestare la corsa. La portiera si apre, l’autista si tiene la testa fra le mani: “Mio dio, cos’ho combinato!”

Nella vita delle persone ci sono attimi in cui tutto rimane sospeso: i battiti del cuore, il respiro, i pensieri... Un tempo corto, infinitesimale, come il tragitto di andata e ritorno che compie il dolore dalle terminazioni nervose al cervello. Un momento d'intervallo in cui la vita si coagula in un punto preciso e netto, denso e feroce. L’uomo è in piedi, tremante, le braccia penzoloni. Guarda fisso nel vuoto. Cantilena un'unica frase: “Chiara è morta, Chiara è morta, Chiara è morta...” Il suono delle sirene, persistente e inutile, lacera il silenzio innaturale che avvolge la periferia della città.

Racchiuse in una sagoma umana di nastro adesivo bianco, secrezioni e sangue non ancora rappreso macchiano l'asfalto. Proporzioni in scala reale, quanto resta di un essere umano. Poco distante, una chiazza più grande, forse d'urina, si esaurisce in un rivoletto nella canaletta di scolo che costeggia la strada. Magari, fra i liquidi, c'è pure qualche lacrima ormai evaporata al gelido sole di un mattino d'inverno. Produzioni corporali e tessuti non più operanti, materiale di scarto da rimuovere al più presto. In mezzo alla pozza rosso cupo galleggiano un paio di occhiali di foggia antiquata, di quelli che usano di solito i vecchi. A circa due metri dalla forma disegnata, borse di plastica hanno riversato il contenuto sul selciato. Scatolette di tonno e Simmenthal, pacchi di pasta, latticini e ortaggi si dispiegano in modo scomposto su quasi tutta la carreggiata. Un pacchetto di riso non ha resistito all'urto spandendo chicchi tutt'intorno, fin sul marciapiede.

L’agente di polizia sta accanto all’uomo. E’ un po’ imbarazzato e pronuncia qualche frase di circostanza, poi non dice più nulla. Altri della Stradale effettuano gli ultimi rilevamenti e raccolgono testimonianze. Hanno chiuso la strada e creato un cordone per tenere lontano i curiosi. Il capo-pattuglia si avvicina domandandogli se si sente di parlare. Fa cenno di sì col capo: “Eravamo appena usciti dal supermercato, voleva andare avanti lei per cominciare a preparare il pranzo, le gambe non mi permettono di camminare a passo svelto. Non ha visto il semaforo rosso... Ho cercato di avvisarla...” Non ce la fa a continuare, si prende il viso fra le mani e piange sommessamente. Il poliziotto gli posa una mano sulla spalla.
“Vuole contattare qualcuno?”
“Ho un figlio che vive negli Stati Uniti, penserò a avvisarlo.”
“Ha parenti o amici che possano aiutarla?
“Qualche vicino, non si preoccupi.”
“Possiamo accompagnarla a casa?”
“Abito nel condominio di fronte, al di là del viale. Grazie, non ce n’è bisogno.”

L'essere umano possiede la facoltà di fare cose cui è abituato senza starci a pensare su. La capacità di mettere ‘il pilota automatico’ per compiere gesti quotidiani e banali coinvolgendo una ‘minimissima’ riserva di attenzione. Può essere un vantaggio o una perdita, a seconda dei casi. Talvolta, è l’unico ponte che unisce all’esistenza, o a una parvenza di normalità. Insomma, un modo per continuare a vivere quando non c’è più ragione alcuna per farlo.

L’uomo sistema i barattoli di conserva nella credenza del cucinino. La
lampadina pende dal soffitto rischiarando quarant’anni di vita a due. Un filo di luce flebile, e accecante. Come in un gioco d’ombre cinesi dispettose proietta sulle pareti il ricordo di un quotidiano diventato anomalo, straordinario, favoloso. Trascorso. Pezzi di vita come pezzi d’intonaco che si scrostano e cadono mettendo a nudo il rosso dei mattoni, l'ossatura del muro. Un tempo di pane tagliato e briciole. Di baci al volo, discussioni, risate, noia, o musi lunghi. Di una fetta di formaggio e un bicchiere di vino rosso, magari alle due di notte, dopo un amplesso. Di gioia e tristezza, ché a pensarci bene tutto torna buono quando non c’è più... Un senso di vertigine lo sommerge, si copre gli occhi col palmo delle mani per farlo cessare, poi esce dal tinello.

Non ha fame, solo voglia di riposare un po’. C'è da riorganizzare le idee. A dispetto di trovare un improbabile equilibrio, ha bisogno d’ordine: ci vogliono pensieri giusti, che possano lenire l’incolmabile e ottuso dolore al centro del petto. Far credere al muscolo cardiaco che una soluzione sia ancora possibile, per quanto effimera e provvisoria. Si siede in poltrona. In determinate occasioni, forme suoni colori del mondo si imprimono in modo indelebile e definitivo nella memoria. Come il fermo-immagine immobilizza la pellicola per analizzare il fotogramma di un film, la mente ripesca contorni e movimenti per capire e interpretare, assolvere o condannare. Talvolta per un patetico tentativo di modificare un destino. Un gioco pericoloso cui non è possibile non giocare. Una tortura dell'anima. Una lotta ìmpari contro forze sovrumane e travolgenti. Una roulette russa cui non ci si può sottrarre. Solo che la pistola è completamente carica e ogni grilletto premuto è uno sparo che esplode cervello e cuore. Eppure non conclude niente perché lo stesso fotogramma torna sempre, implacabile e violento, chiedendo insistentemente di essere analizzato, interpretato, cambiato. E lui sa che non va mai via.

“Sciocca, sciocca, sciocca... mille volte sciocca! Se fossi qui ti schiaffeggerei. Eri proprio una bella impaziente. Lo sei sempre stata, non è certo una novità. Ti piaceva prendere l’iniziativa per dimostrare a te stessa e al mondo che eri indipendente e indomita. Una donna libera. Ma in fondo ti amavo per questo. Avevi una marcia in più rispetto a me, che ti arrancavo dietro. E non solo ora che ho le gambe stanche: è una questione di indole, di temperamento. Fra noi è sempre stato così, tanto che ho finito per abituarmi, a non farci più caso. Fatalmente però, quel passo in più oggi ti ha giocato un brutto scherzo. E l’ha giocato anche a me, che rimango solo. Senza te, per sempre. E che me ne faccio ora dell’amore che mi porto dentro? Era destinato a te, non aveva altra ragion d’essere che la tua persona. Dimmelo, maledetta sbadata che non sei altro!”

Di cosa è composto il dolore della separazione quando l'esistenza obbliga due persone a dirsi addio? E' una lacerazione del cuore o la sofferenza che si prova interrompendo un vizio tenace e inveterato, come abbandonare le sigarette dopo aver fumato per anni e anni? Oppure il perpetuarsi di un istante chiarissimo e incongruo, come la sensazione di bruciore che prova la pelle toccando una lastra di ghiaccio? Come sarà possibile adesso affrontare i giorni e le cose quando giorni e cose erano condivisione e scopo di due esseri umani: l'intento e i comuni atti di due puntini abbracciati nell'immensità dell'universo? Avrà ancora un senso radersi, comprare il pane, infilarsi il pigiama la sera dopo un film in tv? Continuare a vivere e fare tutte le stupide azioni che scandiscono il tempo di uomini e donne sul pianeta terra?

***

Come ogni mattina, la luce diurna filtra dai vetri illuminando l'interno dell'abitazione. Raggi si abbattono sul marmo deformando colori e forme del pavimento. Certe volte il sole invernale può essere duro e pesante come ferro. Ferisce e offende invece di scaldare. Scivola via, freddo e insensibile, senza risolvere il buio di un uomo. Il gorgoglio della moka impregna il locale dell'aroma di caffè. Meccanicamente, riempie la tazza e imburra la fetta di pane davanti al giornale. L'occhio gli cade sulla cronaca: qualcuno si è lanciato dal tetto della Cattedrale sfracellandosi sul sagrato. Un volo di quarantacinque metri nel vuoto: mica male. L'autopsia non ha potuto determinare con certezza se l'individuo abbia avuto un malore o se si sia trattato di suicido. “Un malore”: che idiozie propina la stampa! D'improvviso, come le acque limacciose di un fiume in piena, un pensiero oscuro e prepotente lo travolge: “La follia non è meno logica del dolore. E' il dolore che è insensato e illogico. Il vero pazzo. Far cessare il dolore significa mettere fine alla pazzia”.

Una sorta di inquieta euforia lo prende: gli è venuta voglia di uscire. Si prepara in fretta. Non sparecchia nemmeno la tavola, cancellando in un attimo abitudini di secoli. Si pettina i capelli bianchi davanti allo specchio del bagno, infila il cappotto, e in pochi minuti è sulla soglia. Mentre richiude dietro di sé sente, attutito dal legno della porta, lo squillo del telefono. Ha un attimo d'esitazione, poi entra nell'ascensore e schiaccia il pulsante ‘ottavo piano’.

***

“Dai papà, tira, sono pronto!” In mezzo a due ciabatte ficcate a mo' di pali nella sabbia, il ragazzino adotta la posizione concentrata dei grandi portieri appoggiando i gomiti sulle ginocchia piegate. Fa caldo in spiaggia. E' mezzogiorno e lo zenit del sole estivo cancella le ombre abbacinando gli occhi. La madre, poco distante, sta finendo di imbottire i panini sotto l'ombrellone. Una leggera brezza rinfrescante le scompiglia i capelli. Con orgoglio filiale, mentre respinge le bordate del padre, le lancia occhiate furtive per vedere se lo sta guardando. Quando ha finito di preparare, la mamma chiama: “Ehi, uomini! La colazione è pronta, venite a mangiare su!” Trotterellando vanno a sistemarsi al riparo dal sole per consumare il pasto. Padre e figlio mangiano scherzando e prendendosi un po' in giro sulle rispettive prestazioni calcistiche. La donna ascolta le loro affettuose schermaglie sorridendo. Talvolta prendendo partito a favore del bambino. Dopo pranzo, l'uomo si stende sulla sdraio e si addormenta all'ombra di un libro.

Lui la osserva sistemare il cibo avanzato nella borsa-frigo, poi le rivolge un sorriso furbetto: “Mamma, me la racconti una storia?” “Sì.” Con movimento femminile si accomoda sull'asciugamano offrendogli come giaciglio le gambe abbronzate. Sente il profumo inebriante della crema solare mischiarsi alla fragranza della pelle di lei. Mamma racconta in un filo di voce, accarezzandogli delicatamente capelli e fronte. Si lascia cullare... Il suono del vento trasporta le parole in una melodia al rallentatore che gli intorpidisce i sensi e acquieta il respiro. “C'era una volta...” Poi la voce diventa un brusio indistinto confondendosi col mormorio delle onde. Scivola in un dolce riposo. Il sonno però diventa ben presto inquieto e agitato. Dorme provando un indefinibile malessere, come una sensazione di pericolo imminente.

Quando si sveglia è solo, sotto l'ombrellone. Si alza di scatto e fa qualche passo avanti: papà e mamma sono lontani. Si fa schermo con la mano per vedere meglio: stanno seduti sulla sabbia, di spalle, in direzione del mare. Lei tiene un ombrello nero per ripararsi dalla luce abbagliante. Ha reclinato leggermente il capo posandolo sulla spalla del marito. Non dicono nulla. Osservano, assorti, davanti a sé. Tutti e due indossano vestiti scuri e invernali. E' strano: adesso non spira un alito di vento ma le onde infuriano alte e silenziose abbattendosi con violenza sulla battigia e contro gli scogli. Si alza per prima, con gesto elegante e leggero. Gli allunga la mano per aiutarlo a mettersi in piedi. Tenendosi sottobraccio s'incamminano verso l'acqua. Il disagio che provava si trasforma in crisi di panico. Accelera il passo, poi prende a correre per cercare di raggiungerli, ma i piedi sprofondano nel suolo e non riesce a avanzare. Vuole urlare, però la bocca non produce suono. I due scompaiono tra i flutti... A terra scorge un foglietto di carta scritto a mano. Riconosce la calligrafia della madre. Lo raccoglie per leggerlo: “Amatissimo Figlio, abbiamo scelto di lasciarti perché non possiamo più vivere così. La tua scomparsa ci ha spezzato il cuore e il dolore che ci ha provocato la tua partenza è irrimediabile e definitivo. Il mare che ci ha separato sarà per noi l'ultimo. Addio. Mamma e Papà”.

***

Si sente toccare un braccio: apre gli occhi con un sussulto. Per un attimo la percezione del sudore freddo lungo la schiena gli provoca un impercettibile brivido. L’hostess lo sta guardando con aria preoccupata.
“Excuse me, Sir, how are you?”
“I'm fine, thank you. It's just a nightmare.”
Gli sorride: “Ok. We are to land. Fasten to seat belt, please.”
“Yes, immediately Miss. I'm sorry...”
Fa scattare il meccanismo della cintura di sicurezza e si mette a guardare il paesaggio. E' ancora turbato. Ha il corpo in preda a un leggero tremolio che non riesce a controllare. Ha bisogno di calmare la respirazione e ancorarsi a elementi reali per modificare il corso dei pensieri. Per tornare da questa parte. Dall'oblò osserva i palazzi grigiastri e anonimi della grande città. Ne distingue le torri dei quartieri-dormitorio della periferia, poi il centro dai tetti rossi da cui spuntano, svettanti, i grattacieli degli uffici amministrativi. Nota il formicolare del traffico attraverso le grandi arterie cittadine. Gli fa pensare alla circolazione del sangue: “Un incidente è come un grumo che interrompe il flusso sanguigno, una specie di ictus che provoca danni irreparabili al resto del corpo”.

Da quanto manca dall'Italia? Quattro, cinque anni... non potrebbe dirlo con certezza. Perché ha lasciato passare tutto questo tempo prima di tornare? Forse per una specie di fuga: dalla famiglia, dalla sua infanzia, da tutto... Come se andarsene lontano fosse servito a liberarsi da affetti e passato. Che ingenuità! Adesso si rende conto che aver messo chilometri d'oceano fra sé e i genitori non è bastato. La tensione dei ganci che lo infilzavano è rimasta intatta, lo sente, ora che le circostanze lo riportano a casa. Le situazioni non chiarite sono rimaste dentro di lui, attive e operanti, anche se all'insaputa del possessore. In definitiva, è come aver imbiancato un muro per cancellare una macchia d'umidità che ora rispunta, intatta, sulla calce della parete. Non è una novità. Probabilmente, lo ha sempre saputo. Forse l'incapacità di trovare la falla e riparare il guasto lo ha spinto a rassegnarsi. O forse, a quarant'anni, non ha più voglia di tentare niente. Tutto sommato, ha imparato a conviverci, con le zavorre. Forse...

Riaffiora un ricordo: una volta, appena arrivato in America, guardò un film in una stanza d'albergo della Grande Mela. Non dall'inizio, stava finendo. L'aveva trovato per caso, una sera, cambiando distrattamente canale col telecomando. A quel tempo capiva pochissimo l'inglese, però le immagini bastarono a catturarne l'attenzione. Mostrava l'ultima seduta, la decisiva, di un paziente dallo psicanalista. L'uomo, durante la consultazione, scopriva l'origine dei blocchi che lo tormentavano, e la comprensione che affiorava lo rendeva a mano a mano libero. Al termine, era raggiante. Stretta cordialmente la mano al terapeuta, era uscito leggero per le strade, mentre sullo schermo sfilavano i titoli di coda. Ecco cos'è successo: ha smesso di credere che sia possibile.

La discesa a sbalzi ravvicinati dell'aereo gli provoca vuoti d'aria allo stomaco: non ha mai amato gli atterraggi. Reclina la testa all'indietro e con un gesto rapido della mano butta giù mezza compressa di Lexotan. Chiude gli occhi pensando a come dovrà comportarsi durante la cerimonia. O se bisognerà prepararsi al peggio... Mentre i bagagli sfilano sul nastro trasportatore, compone il numero sul cellulare. Vuole avvisare papà che arriverà fra un'oretta, secondo il traffico. Qualcuno ha dimenticato uno zaino: conta cinque squilli per ogni giro completo. A casa non c'è nessuno. Riattacca e afferra il manico della valigia a rotelle. Esce dall'aeroporto e va a cercare un'auto. Il taxi sfreccia sulla corsia preferenziale eludendo il caos della metropoli nel mattino inoltrato. Durante il tragitto osserva l'architettura degli edifici. Attraverso i riquadri delle finestre indovina la vita all'interno delle case. Immaginare la commedia umana è un espediente qualunque per non pensare a sé, a ciò che è stato. A ciò che sta per affrontare. Quando la macchina sta per raggiungere casa, chiama New-York. Aspetta il bip della segreteria: “Hi, David. It’s me: Marcello. I'm afraid, and I'd like you to be with me. I love you.”

Ordina al tassista di fermarsi due caseggiati prima. Ha visto da lontano il velluto violaceo dei paramenti che addobbano l'ingresso del condominio e preferisce arrivare a destinazione a piedi. Per non farsi sentire, pensa curiosamente. Paga la corsa. Alza il bavero della giacca per proteggere il collo dal freddo pungente e si incammina a passo svelto nel sole biancastro della periferia urbana. Il portone è socchiuso, non ha bisogno di citofonare. Si ferma un momento nell'androne a firmare il registro, poi va a prendere l'ascensore senza incontrare anima viva. Di domenica la portineria è chiusa e il gabbiotto della custode ha le tendine tirate. Meglio così, non ha voglia di vedere nessuno, tantomeno la signora Anna. L'ansiolitico ingerito gli mantiene il battito cardiaco a un ritmo ragionevole. Sale al secondo piano, suona il campanello e rimane in attesa. Si guarda intorno. La plafoniera sopra di sé è punteggiata di minuscoli insetti morti e rinsecchiti. Emana una luce ingiallita e slavata che sa di vecchio e stantio. L'intonaco verdastro del pianerottolo è rimasto quello di allora. Ma scrostato e annerito dalla fuliggine del tempo. Un vago odore di muffa impregna l'ambiente. Sedendo sui gradini ritrova la data scalfita con l'Opinel il giorno che aveva dimenticato di prendere le chiavi di casa. Un pomeriggio interminabile passato a aspettare che la madre tornasse dal lavoro. Il cinque maggio millenovecentottantadue. Un secolo fa. Del resto, se n'erano mai accorti i suoi?

Aspetta. Senza sapere bene cosa fare. Il padre arriva dieci minuti dopo. Esce dall'ascensore con la faccia stravolta e gli occhi arrossati e gonfi, come avesse appena smesso di piangere. Si salutano con un abbraccio, senza dirsi nulla. Poi entrano in casa e vanno in soggiorno. Si accomodano sul divano di stoffa color carta da zucchero. Il solito divano, di quando era piccolo. Ma più consunto e logoro dall'accumulazione di peso dei corpi, degli anni passati... O almeno, così gli sembra. Ci sta a disagio, seduto sopra. Si sente fuori posto. Sua madre è morta. E gli tocca condividerne il dolore col padre, che non vede da troppo tempo. Deve combattere contro il pudore affettivo che la lontananza ha creato fra lui e un uomo invecchiato e stanco, visitato dall'abisso del nulla. Ha da affrontare un presente difficile, proprio ora che tornare a casa lo riporta prepotentemente al passato. L'arredamento della stanza gli è familiare e consueto, ma non ne prova alcuna gioia, solo tristezza e desolazione. Gli pare che mobili e suppellettili stiano lì a testimoniare la sua incapacità di cambiare. Una specie di rimprovero. Gli stanno rinfacciando che è stato un figlio infedele e vigliacco, fuggito di notte, per non farsi vedere. Che ha sorvolato l'oceano per non attraversare il mare che aveva dentro. Che anche lui, in fondo, è parte dello stesso mobilio: oggetto fra oggetti stinti e consumati, amorfi e demodé. Immobili. Sempre quelli. E che anche lui è come loro.

Capisce che il tempo modifica le forme, non l'essenza delle cose. E' come osservare pezzi di sé sparsi nel locale. L'esplodere di uno specchio. Schegge di vetro conficcate nel muro ritrovate intatte molto più tardi, ormai prive della trasparenza originaria. Rese opache dalla polvere degli anni e dal baratro dell'assenza. Frammenti di uomo. Una consapevolezza che fa male. Come ricevere un calcio quando si è già in terra. Un secondo colpo, a tradimento. Ecco cosa ha fatto: ha tradito se stesso. E la cosa più intollerabile per lui è trovarsi là, in un'occasione simile. Si sforza di non soccombere a quei pensieri. Abbozza un sorriso e rompe il silenzio: “Papà, sono contento di vederti! Quando ho suonato e non hai aperto, temevo avessi fatto una pazzia.” Risponde subito, senza esitare. Come si aspettasse esattamente quelle parole: “Sì, in effetti ne avevo l'intenzione. Stavo per andare sul tetto del palazzo per... raggiungere tua madre, laddove si trovi”. Parla in fretta, col ritmo sincopato di chi ha urgenza di dire il seguito. Fa un sospiro per sbloccare la respirazione, poi continua: “Ma ho rinunciato a questo proposito perché la promessa è stata mantenuta”. Pronuncia d'un fiato l'ultima frase, con tono determinato e calmo, mentre un lampo fugace gli attraversa lo sguardo. Come una soddisfazione effimera e risolutiva, pensa Marcello.

“Che promessa, papà? Cosa intendi dire?”
“Un giorno, io e Chiara ci ripromettemmo che chi di noi due fosse ‘partito’ per primo, sarebbe tornato quaggiù per dire all'altro come stanno le cose nell'aldilà. Era importante per noi, allora. Di tanto in tanto ne riparlavamo per non dimenticare il giuramento fatto.”
“Ma, papà...”
“Ti prego, lasciami continuare. Lo so, stai pensando che abbia perduto il senno, o mi sia ubriacato per dimenticare il dolore della scomparsa. Però non è così, e credo tu sappia che non sono mai stato un visionario.”
Non è mai stato un visionario, lo sa. Lo lascia continuare.
“Prima di uscire sul tetto mi sono seduto sulle scale del pianerottolo del solaio. Avevo bisogno di farmi coraggio e ho bevuto qualche sorso dalla bottiglia che avevo con me. Però non sono abituato agli alcolici, le gambe mi sono diventate di piombo e non riuscivo più a camminare. Mi girava tutto. Perciò mi sono sdraiato sui gradini in attesa che passasse. Sono caduto in una specie di sonnolenza mista a torpore e, in quello spazio fra sonno e veglia, tua madre è venuta a parlarmi. Perlomeno ne ho percepito la presenza. E' stato un sogno talmente reale da non lasciarmi dubbi al riguardo.

“Era una bella mattinata d'estate, eravamo tutti e tre al mare. Il sole sfavillava in un cielo intensamente azzurro, la temperatura era mite e gradevole. Tu eri ancora piccolo, tua madre e io più giovani. Stavamo facendo il bagno insieme e ci spruzzavamo l'acqua divertendoci moltissimo. Fu un momento carico di promesse e spensierata felicità. Giocammo a lungo... Ebbi la sensazione di veder passare tantissimo tempo in un solo attimo. D'improvviso, non so come, scese sera. Il sole diventò arancione abbassandosi nel cielo striato di giallo, rosso e viola. Chiara disse che si stava facendo tardi, e doveva partire. Immediatamente capii cosa volesse dire: sapevo che non sarebbe tornata. Avvertii una fitta lancinante in qualche parte del corpo, come se la somma di ogni dolore si fosse concentrata in un punto preciso ma non identificabile. Come subire una mutilazione senza sapere esattamente di quale arto si trattasse. Era troppo per le mie forze, stavo per crollare. Nemmeno tu volevi che se ne andasse. Non ne volevi sapere. Forse, avevi capito tutto... Per non lasciarla andare, ti aggrappavi alle sue gambe stringendole forte con le braccia. Mancò poco non cadesse. Cercavo di convincerti a mollare la presa, sforzandomi di soffocare lo struggimento che provavo. Lei non diceva nulla. Ci guardava con occhi compassionevoli e profondi. Però, un velo di tristezza le disegnava gli angoli della bocca mentre sorrideva.

“Poi disse: ‘Non posso sottrarmi al mio destino, perciò devo partire. Ma il destino non può eludere le sue stesse leggi, e i vincoli che ha creato non potranno essere spezzati. Distanza e separazione non potranno mai cancellare l'unione fra noi, poiché essa è indissolubile. Noi saremo insieme per sempre’. Queste parole ti calmarono un poco. Accettasti di lasciare la presa. Anch'io mi sentivo meglio. Non che ne capissi il significato recondito - anzi, mi confondevano - ma erano plausibili per il cuore. Mi facevano bene. Pensai che stavi provando le stesse cose. Ci chiese di guardarla perché voleva danzare per noi, prima di andarsene. Si scostò di qualche metro e cominciò a girare su se stessa con un movimento lieve e aggraziato. Non l'avevo mai vista fare così. Ballava roteando al suono di una melodia armoniosa e inaudibile. E il ballo entrava dentro di me in modo inequivocabile e perfetto. Ebbi la certezza che avesse detto la verità. L'amavo, e sapevo che l'avrei amata per sempre. Sentivo le lacrime rigarmi il viso. Ti tenni per mano e restammo a osservarla danzare davanti al mare mentre il crepuscolo spegneva luci e colori. Finché tutto divenne indistinto e svanì... Quando mi sono svegliato potevo di nuovo camminare. Mi sono strofinato gli occhi con la manica del paltò e ho preso l'ascensore in senso contrario per raggiungerti.”

‘Distanza e separazione non potranno cancellare l'unione fra noi...’ Marcello non sa cosa dire. Per associazione mentale gli viene in mente un frase del ‘Piccolo Principe’ che ha letto un mucchio di anni prima: “L'essenziale è invisibile agli occhi”. Gli sembra importante, non vuole dimenticarla. La ripete mentalmente, come il personaggio del racconto. Cerca di coglierne il senso profondo, o la verità sottintesa. E lo fa in silenzio. Chiede il permesso di andare in bagno per rinfrescarsi. Ha bisogno di una pausa prima di parlare.

***

“Papà, devo dirti una cosa: vorrei che tu mi perdonassi.”
“E di cosa!?”
“Di avervi abbandonati, andando a vivere negli Stati Uniti.”
“Non dire così, Marcello. Hai cercato la tua strada laggiù, che male c'è? L'America ti ha offerto possibilità di carriera che difficilmente avresti potuto ottenere qui. Sei diventato titolare di cattedra in una prestigiosa università di New-York. Io e la mamma siamo sempre stati fieri di te. Non c'è niente di cui debba perdonarti.”
“Sì, ma non è l'unica ragione per cui sono partito...”
La telefonata dell'agenzia di pompe funebri lo interrompe.
“Sì, sono il signor Martini, mi dica...”
L'impiegato spiega che il funerale è fissato per le quindici. Non occorre presentarsi in largo anticipo in quanto non ci sarà la presentazione del corpo, data la gravità dell'incidente. Potranno trovarsi direttamente in chiesa per la messa funebre.
“D'accordo. Arrivederci.”
Riattacca il ricevitore. Durante la conversazione Marcello è rimasto con gli occhi bassi a osservare un punto sul pavimento. Ha concentrato l'attenzione sulla determinazione di non nascondere più niente. Con uno sforzo volontario sta cercando le parole da dire. Il padre, finito di annotare su un foglietto le indicazioni avute, torna a sedere accanto a lui.

“Papà, io sono omosessuale. Lo sono sempre stato. Vivo da quattro anni con David, la persona che amo. Non ho mai avuto il coraggio di affrontare questo argomento con te e mamma. Forse, se sono partito, è stato proprio per evitare di parlarne con voi. Mi dispiace.”
Ecco, ha detto al padre la verità. Direttamente, senza sotterfugi né giri di parole. Senza troppa difficoltà. Però, mentre parlava, ha avuto la curiosa impressione di aver già fatto lo stesso discorso un'altra volta. Non potrebbe dire quando, forse in sogno. Si rivede pronunciare le stesse parole al cospetto dei suoi, in un passato impreciso e sfumato: “Papà, mamma, devo dirvi una cosa: sono omosessuale”. Quasi non ci fosse nulla di nuovo o inconsueto in quella rivelazione. E tutto fosse già stato detto. Prova una sensazione insolita e incongrua: si sente leggero e al contempo puerile. Ma suo padre non gli lascia il tempo di analizzare l'origine del sentimento: “Lo
so che sei omosessuale. E anche Chiara lo sapeva. In realtà lo sappiamo da quando avevi diciassette, diciotto anni”.
“Ma… come è possibile!?”
“Beh, lo vedevamo per come eri: il tuo essere, la tua sensibilità, il tuo disinteresse nei confronti delle ragazze. Poi un giorno, riordinando camera tua, Chiara trovò una rivista...”
“E in tutto questo tempo… non avete mai detto nulla. Perché?”
“Abbiamo scelto di rispettare la tua volontà di non dirci nulla. Non volevamo forzarti la mano. Non avevamo bisogno che tu ce lo dicessi per volerti bene. Ti amavamo così com'eri. Ci fidavamo di te, insomma.”

L'avevano sempre saputo. Gli sembra una cosa ridicola, adesso. Tutti i drammi interiori, le precauzioni, i conflitti con se stesso erano stati inutili. Un peso superfluo. Per anni aveva indossato i panni di un personaggio scomodo e forzato. Per nulla. Per anni aveva nuotato nella sabbia sbracciando e sollevando polvere senza muoversi dal posto. Ora suo padre gli dice di alzarsi e gli indica il mare. E lui non l'aveva visto. Era lì, a pochi metri, ma non l'aveva visto. Scoppia a ridere. Di se stesso, dell'assurdità della situazione, della vita... Il padre gli sorride affabilmente, quasi cogliesse in pieno il subbuglio negli stati d'animo del figlio. Per una manciata di secondi rimangono così, senza dire più niente, scambiandosi qualche occhiata affettuosa e un po' imbarazzata. Sguardi di uomini non troppo abituati a esprimere reciprocamente i propri sentimenti. Poi papà si alza e dice: “A pensarci bene, sono proprio un bel maleducato: sei arrivato da un pezzo e non ti ho ancora offerto niente. Lo vuoi un caffè?” Si dirige in cucina senza aspettare la risposta.

“Grazie, papà.”

La voce di Marcello gli arriva attutita dal soggiorno. Sorride mentre svita la caffettiera. Hanno ancora un po' di tempo prima della cerimonia.

Luigi Scarabino

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