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01/01/2012

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COPIONI… QUASI UGUALI

Clicca per Ingrandire Ricordate quella sorta di storiella, forse un pochino spinta, forse di gusto un po’ volgare, che si raccontava circa mezzo secolo fa (e forse ancora si racconta) e riguarda due compari ciociari (nel senso che erano nati in un paesino della provincia di Frosinone e vi ci erano cresciuti fino a quando le famiglie non si trasferirono nella Capitale) che giungono al ‘dunque’ solo in vecchiaia? Nooo?! E allora ve la racconto io (o, se non la racconto a tutti, almeno a coloro, specialmente i più giovani, che mai l’hanno sentita). E ve la racconto come una favola (i puritani, comunque, prima di arricciare il naso e poi scaraventare nella spazzatura le pagine che la contengono, sono dispensati dal leggerla: non sarà mosso loro alcun appunto!).

C’erano ‘na vorta, in un’antica borgata romana (non ricordo quale o forse il narratore da cui l’ho sentita non me l’ha nominata - penso, comunque, che sia indifferente sapere precisamente quale), du compari… (ma è meglio che prosegua in italiano, altrimenti famo notte e non ci sbrighiamo più)… due compari di una rispettabile anzianità: lui di poco sugli ottanta, lei di poco al di sotto. Essendo figli di famiglie amiche e vicine di casa, erano cresciuti insieme. Erano compari nel senso che lui (diamogli il nome convenzionale di Luigi) era stato tenuto a battesimo dal padre di lei, lei (la chiameremo Lucia) dalla madre di lui.

Insomma, una sorta di chiasmo (dal greco “struttura a croce del ‘chi’ greco”, figura retorica in cui si crea un incrocio immaginario fra due coppie di parole, in versi o in prosa, con uno schema sintattico di AB,BA; NdA), di incrocio, uno scambio di madrinato e padrinato (i neologismi sono stati liberamente inventati da me: non ricordo di averli sentiti dal mio narratore), allo scopo non di disobbligarsi a vicenda, ma di rafforzare i vincoli di amicizia, stima e rispetto reciproci. Luigi e Lucia, crescendo insieme, si erano tanto affiatati che parevano fatti l’uno per l’altra (e viceversa). E sarebbero, per la legge, potuti diventare marito e moglie. Per le famiglie, invece, tali matrimoni, se potevano essere scongiurati, dovevano esserlo. Così che, divenuti giovani, pur piacendosi e desiderandosi, mai si confidarono di volersi prendere. E gli anni passarono. E lei si sposò, e poi anche lui lo fece.

I due matrimoni, ciascuno nel suo contesto, riuscirono sufficientemente felici. Però, fattisi vecchi, Luigi e Lucia si ritrovarono vedovi entrambi. Continuavano a incontrarsi, come avevano sempre fatto, per tradizione, durante i lunghi anni matrimoniali. Ma adesso era Luigi che faceva visita, almeno una volta a settimana (e qualche volta di più), alla sora comara: la gente lo ammetteva, anche se non avrebbe ammesso il contrario (che, cioè fosse Lucia a far visita a Luigi). Sia come sia, Luigi e Lucia si vedevano, erano tornati a essere quasi come quando erano bambini e poi adolescenti e poi giovani.

Lei gli preparava il caffè (divenuto ormai ‘il solito caffè’), offrendogli i ‘soliti’ pasticcini rigorosamente preparati da lei, Luigi gradiva sempre tutto con piacere. Parlavano del più, del meno, di nuove nascite nelle famiglie dei discendenti propri o di quelli di amici e conoscenti, di morti di più anziani, di coetanei e perfino di più giovani. Parlavano anche della loro infanzia, della loro giovinezza e del resto della loro vita, spesso ripetendosi, qualche volta scoprendo qualcosa di nuovo, di inedito.

Una sera, all’imbrunire, l’ora più carica di nostalgie (quella che “intenerisce il core ai naviganti”, per dirla col sommo Poeta), Lucia, invece del ‘solito’ caffè, essendo un po’ tardi rispetto ad altre sere, pensò bene di offrire al compare, per accompagnare i ‘soliti’ pasticcini, un sorsetto di rosso, di quello che le portava il figliolo dalla vigna e produceva secondo tradizione di famiglia. Terminati i pasticcini, scolato l’ultimo goccetto di vino, Luigi, sprofondandosi più comodamente nella poltrona, mise fuori un sospiro che la comara non aveva mai sentito prima in vita loro. Un sospiro che pareva stesse tirandosi appresso l’anima del compare.
Lucia entrò un poco in apprensione. “Che succede, sor compare?!” le venne fuori con preoccupazione.

“Oh, gnente, gnente, sora comà. E’ nostargia. Nostalgia di quando eravamo piccoli, dei nostri giochi innocenti, di quando, senza essercene resi conto, eravamo cresciuti. In particolare, per quanto mi riguarda, di quando tu ti trasformavi da ragazzina quasi insignificante in una donna procace, bella, simpatica, spiritosa… meravigliosa. Quante volte avrei voluto baciare quelle labbra, divenute ormai ciliegie mature, carnose. Quante volte avrei voluto toccare il vostro petto! Quante volte avrei voluto soddisfare la mia curiosità di sapere come si era trasformata la vostra… ehm, la vostra… ma sì, ormai, alla nostra età lo possiamo dire: la vostra… farfalla, insomma, quella che tante volte avevo vista, senza che forse ci facessi molto caso. E avrei voluto toccarla, accarezzarla, prenderla! Ma le leggi del paese, prima, e di questa cavola de borgata, dopo, vi hanno portata a diventare la moglie di uno sconosciuto (anche se, pace all’anima sua, non pare sia stato un cattivo marito)” - si sfogò Luigi. E, a parte qualche tentennamento iniziale, aveva messo fuori tutto d’un fiato ciò che teneva in cuore di dire e che non avrebbe mai più detto, se si fosse minimamente fermato, e se lo sarebbe portato diritto diritto nella tomba, come il più grande dei suoi segreti.

Lucia era stata a seguire, in religioso silenzio. Non si era persa una sola parola, una sola virgola, una sola intonazione di voce: nulla. E gli occhi le divenivano sempre più lucidi, il volto sempre più luminoso, il sorriso sempre più caldo, anche se ciò la obbligava a dischiudere le labbra e mettere a nudo la sua bocca, orfana, ormai, della maggior parte dei poveri denti. L’aveva perfino presa il timore che i tentennamenti del compare potessero preludere a un arresto definitivo della confessione-dichiarazione. E, quando tutto era stato detto, le riuscì più facile riacquistare coraggio e anche raddoppiarlo, per poter mettere anche lei fuori la propria anima. “Ah, sor compare, a chi lo dite, a chi lo dite! Anch’io avrei voluto quello che volevate voi, anch’io sono stata vittima, come voi, delle convenzioni, delle tradizioni, di queste stupide leggi di stupidi paesi o de borgate che sia! Ma, ormai, che possiamo farci?”

Il coraggio di lei nel confessare i passati sentimenti, fece raddoppiare il coraggio e l’intraprendenza di lui. E Luigi disse: “E’ proprio vero che quanno che semo ggioveni e ciavemo li denti nun ciavemo mai er pane e che quanno che semo vecchi e ciavemo er pane nun ciavemo li denti, ma qua nun è questione de pane e de denti, io credo che ce potremmo pure provà, no? Che ne dite, sora comà”. E la risposta alla sua temeraria proposta, contrariamente a quanto temeva Luigi, non si fece attendere, anche se le grinzose guance di Lucia parvero alquanto imporporate di vereconda pudicizia. “Provamoce, sor compare… provamoce”.

Luigi, in quel momento, si sentì lieve come un passerotto e con un balzo si sollevò dalla poltrona, le prese la mano, la tirò su, la guidò verso il letto, l’aiutò a farvela salire, le tirò giù, non senza emozione e frenesia, gli antichi mutandoni orlati di pizzo, le pose le gambe come se si accingesse a eseguire una visita ginecologica e, seppure un tantino deluso dalla presenza di un cespuglio ormai spoglio e più del colore del sale che del pepe, prese a fare quello che non aveva potuto fare da giovane. Alla fine, volle provare anche l’emozione dell’atto finale. La fece spostare con la testa penzoloni verso l’opposta sponda del letto, si arrampicò sull’alto materasso e prese posizione. Ma, dài e dài, la penetrazione non avveniva. E meno l’evento si verificava, più il compare si accaniva, ahimé (ma sarebbe più corretto dire ‘ahilui!’), senza successo.

Questo incontro pareva essere stato creato apposta dalla loro sorte per riparare a una propria troppo evidente ingiustizia ai loro danni. Ma pure, nulla voleva succedere. A un certo punto Luigi, sudato, quasi stremato di forze, sbuffando per l’affanno si fermò e stava per dichiararsi sconfitto quando, ripreso coraggio, senza ormai più pudore, ebbe la forza di dire: “Sora comà, qua ce so troppe pieghe, la strada nun se trova: scusate, ma nun sarà er caso che m’aiutiate, chessò, magari facennome ‘na pisciatina orientativa?”

Io non so (anche perché a me non è stato detto) se la richiesta fu accolta o se i compari si misero a ridere e conclusero così il loro rapporto, senza assaporare il frutto ormai appassito della loro nascosta passione. So, invece, che di queste storie si potrebbero riempire voluminose antologie. E, di queste, potrebbe far parte anche quella cui mi accingo a far cenno e di cui, in qualche modo, sono - per così dire - testimone più diretto, riguardando essa una persona da me conosciuta (che non nominerò, ma che, sempre per convenzione, chiameremo Fulgenzio, mentre a lei affibbieremo il nome di Chiara, senz’alcun blasfemo riferimento alla sorella spirituale del Poverello di Assisi, entrambi del tutto estranei a questa storia: se non fossero estranei, sarebbero viventi e forse miei coetanei, non morti e sepolti da circa otto secoli).

Erano dunque, Fulgenzio e Chiara, come Luigi e Lucia, due comparelli. Solo che, nel caso presente, Chiara era di qualche anno più anziana di Fulgenzio. Con la conseguenza che in Chiara, il desiderio di Fulgenzio nacque molto tardi, quello di Chiara, da parte di Fulgenzio, si fece vivo molto tempo prima. Come si sa, infatti, i ragazzini, quando incominciano a prendere coscienza della propria sessualità, non è alle coetanee che rivolgono il loro pensiero, ma proprio a quelle più grandi di loro, già munite di evidenti attributi, che fanno loro immaginare che, con queste, i rapporti sarebbero davvero succulenti rispetto a quelli che potrebbero avere con ragazzine del tutto acerbe, implumi e senza forme.

Quando Fulgenzio aveva circa undici anni e Chiara quattordici, coi suoi senetti ormai coperti e protetti (sarebbe difficile e scorretto dire ‘sorretti’) e le ascelle coperte di teneri peli, tali da far immaginare così anche il monterello di Venere, prese a desiderarla e - come prima accennato - a lei ispirarsi per le prime prove autoerotiche. Si deve dire di più, però. Fulgenzio, a differenza di Luigi, poteva permettersi di farsi coccolare dalla comarella. Si faceva prendere in braccio, si stringeva al petto di lei, la toccava. Lei non ne aveva dispiacere, ma prendeva il fare del comparello come un gioco, come il gioco di un bimbo con la sua mamma, niente di più, niente di diverso.

Poi, crebbe anche Fulgenzio e, mentre questi, pur desiderando (adesso, ardentemente) Chiara, cominciava a farsi scrupolo per il fatto che la cosa era da considerarsi disdicevole tra compari. Chiara prese coscienza dei propri sentimenti per il giovane e avrebbe voluto riprendere, con altri toni, i rapporti di alcuni anni prima. A lei non importava nulla delle tradizioni, dei pensieri degli estranei. Lei era messa in mora solo dalla sua età. “Che succederebbe - si chiedeva - se io dovessi dichiararmi a Fulgenzio e riuscissi poi a coronare il mio sogno di divenire sua moglie? Io diventerei vecchia prima di lui, lui potrebbe non desiderarmi più e lasciarmi lì in un angolo, come un’arancia ben spremuta, ormai rancida e acida”. Il matrimonio non si fece. E, nonostante fosse più giovane, Fulgenzio si sposò prima di Chiara.

Quando si rividero, per caso, alcuni anni dopo (lei, per ragioni di lavoro, si era trasferita altrove, lontano), Fulgenzio aveva un figlio, Chiara aveva avuto solo un fidanzato, e per poco tempo. Infatti, si erano lasciati quasi subito perché lui aveva fretta di andare al sodo, lei voleva invece conoscerlo abbastanza prima di ‘concedersi’ (anche se non pretendeva di arrivare vergine all’altare). Si incontrarono una volta per una pizza, un’altra per una cena, si raccontarono la loro vita, le proprie esperienze, i propri disappunti, le proprie delusioni, tutto, senza nascondersi nulla. E Fulgenzio non si fece sfuggire l’occasione di mettere a nudo la propria piaga, il proprio dolore per l’infelice matrimonio avuto e ora divenuto irrecuperabile, “come un vascello sconquassato alla deriva” precisò.

La brutta notizia colpì fortemente l’animo della donna che, accorata, spostò la sedia, gli si mise al fianco, gli prese le mani e gliele accarezzò, con dolcezza. Una dolcezza che a Fulgenzio non parve proprio materna; gli pareva invece carica di tutt’altro sentimento: gli pareva che ci fosse troppo calore, come un calore di febbrone. Contraccambiò la stretta, le si avvicinò col capo, si fece trascinare dall’impulso, dall’emozione e le si avvinghiò stretto al collo, come uno che si aggrappi a una radice per non sprofondare nel burrone. Calde, copiose lacrime sgorgarono in silenzio dai loro occhi, si confusero, divennero un unico rivolo. Avrebbe voluto di più, Fulgenzio. Avrebbe voluto alzarsi e raggiungere con lei un luogo dove darsi con tutta l’anima.

Lei capì. Si sciolse dalla stretta, si assestò con la schiena allo schienale della sedia e, mostrando uno sguardo serio, riflessivo, senza mezzi termini, con chiarezza, con franchezza, “Scegli - disse: - o lei o me. Io non sopporto minimamente di condividerti con un’altra, anche se con quest’altra tu non dovessi mai più avere rapporti intimi. Se scegli me, fin da questo momento sono pronta a darti tutta me stessa, a riparare in qualche modo al mio errore di qualche anno addietro, di quando avevo paura di mettermi con uno più giovane di me. Se non riesci a scegliere, si vede che ci sono degli ostacoli. Ostacoli che non cementerebbero la nostra unione, ma sarebbero sempre come degli isolanti che ci terrebbero staccati. E tu sai che, se tra mattoni non c’è cemento, non c’è nemmeno saldezza. E i muri crollano, il castello va in briciole, in polvere…”

Fulgenzio non seppe rispondere, c’era sicuramente qualcosa che gl’impediva di decidere. Aveva forse bisogno di tempo. Tutto, infatti, era avvenuto troppo improvvisamente. E non poteva non tenere presente che nella famiglia non c’erano solo lui e la moglie, ma anche un figlio. Il peso dello scrupolo di doverlo lasciare era troppo grave. Aveva bisogno di tempo. Ma non riuscì a dirlo. Chiara non insistette, lo lasciò in silenzio, a lungo. Poi si alzò, recuperò la borsetta, si chinò ad accarezzare le mani di Fulgenzio, si raddrizzò, si girò, prese la via dell’uscita e sparì.

Non seppero capire che quello era il loro momento. Soprattutto, non lo seppe capire lui. Lui che era papà, sì, ma ormai doveva capire che il suo matrimonio era naufragato, il vascello irrecuperabile e l’affetto per suo figlio essere estrinsecato forse meglio proprio dall’esterno anziché nell’ambito di una famiglia ormai non più esistente. D’altronde, lei, Chiara, era libera, con una bella posizione e sempre carina e appetitosa, oltre a essere pienamente disponibile, in quanto pur sempre innamorata.

Fulgenzio, che sotto sotto sicuramente in modo inconscio, non voleva rinunciare a sua moglie, più giovane di Chiara e anche molto più giovane di lui di diversi anni, sperando sempre in un rinfocolamento degli affetti coniugali e in un definitivo riavvicinamento, anche materiale, sessuale, non aveva potuto rispondere. Ed era rimasto pensoso, assente. A Chiara non era costato molto capire. E la separazione non aveva potuto essere che scialba, quasi apatica. La carezza di Chiara era più un’espressione di pietà che di affetto.

Trascorsero un po’ di anni senza vedersi, senza sentirsi, e divenuti anziani, dopo la separazione personale e l’inevitabile divorzio di Fulgenzio dalla moglie, proprio questi fece il primo passo per riavvicinare Chiara. Ma quel che ottenne fu di scoprire che Chiara, in età più che matura, era convolata a nozze e, pur senza prole, era felicissima col suo Venanzio (anche questo, ovviamente, nome convenzionale), il cui amore, il cui affetto, la cui tenerezza erano decisamente intraducibili con le parole.

Seguirono ancora due anni di silenzio. Dopo di che Fulgenzio, ancora una volta per propria iniziativa, lo ruppe. E questa volta scoprì che il suo vecchio primo amore era di nuovo senza compagnia. Prese coraggio, esternò l’intenzione d’incontrarla, rivederla, poterla abbracciare (o almeno riabbracciare, come quando erano ragazzi). Ma lei era irremovibile: era troppo attaccata al ricordo del marito, col quale pareva continuare a vivere, pur sapendolo morto. Fino a quando, molto tempo dopo, Fulgenzio non prese il coraggio di recarsi nel luogo di residenza di Chiara e presentarsi alla porta di casa sua. Chiara non ebbe cuore di non aprirgli, di non farlo accomodare, di non metterlo a proprio agio, subito accingendosi a preparare un buon caffè caldo, tanto più che si era in inverno e faceva freddo.

Abitava sola, Chiara, e non riceveva quasi nessuno, tranne i nipoti, figli di sua sorella e dei suoi fratelli. Nessuno da parte del defunto, unico superstite dell’unico ramo della sua famiglia. Aveva fatto accomodare Fulgenzio davanti al crepitante caminetto ed era sparita. Tornò dopo un quarto d’ora con un vassoio ricco di diverse qualità di pasticcini preparati da lei stessa, di un vasetto di marmellata di amarene (che sapeva piacere al ‘compare’) e una chicchera di aromatico caffè fumante. Bevvero, sorseggiando in silenzio. Fulgenzio prese qualche pasticcino, arricchendolo con la marmellata da lei preparata.

“Buona. Buona come sempre. Come quella che mi facevi assaggiare tanti anni fa. Peccato essermela perduta per così lungo tempo. E peccato, innanzitutto e soprattutto, di aver perduto te”, furono le parole di Fulgenzio dopo aver a lungo taciuto, lui guardando prevalentemente la fiamma nel camino, lei non distogliendo per un solo attimo lo sguardo da Fulgenzio. Chiara, in preda a commozione o in preda all’improvviso ritorno della vecchia fiamma che l’aveva per tanto, tanto tempo, tenuta prigioniera, allungò le mani attraverso il tavolino, le strinse, le accarezzò, poi si alzò, per sedersi sul sofà, al suo fianco. In quel momento, Venanzio non compariva nei fotogrammi della sua mente; vi comparivano solo quelli (‘antichi’) di Fulgenzio e dei momenti, dei tanti momenti in cui lei lo aveva tenuto sulle sue ginocchia e aveva sentito le sue tenere mani, il suo tenero piccolo corpo sulle cosce, sul ventre, sul seno. Avrebbe desiderato rimetterselo in grembo, avrebbe desiderato farsi toccare, per riandare a occhi chiusi, verso quel passato ancora così nitido, così presente.

Non lo fece. Ma non potette frenare l’impulso di abbracciarlo, stringerlo, baciarlo. Prima su tutta la faccia, poi sulle labbra, appassionatamente. Fulgenzio, pur preso di sprovvista, in cuor suo non aspettava altro: era proprio quello che voleva e mai avrebbe avuto il coraggio di chiedere (stranamente, in quel momento, pur carico di desideri, non aveva alcuna voglia di mettere le corna a Venanzio che, attraverso la foto posata sul piano della credenza di fronte, era almeno spiritualmente presente). Il calore di Chiara, che pur invecchiata aveva un viso ancora tondo e liscio come seta, lo fece però desistere da qualsiasi astensione, da qualunque senso di ritrosia e di rispetto (un rispetto che, tutto sommato era solo ‘rispetto alla memoria’).

Trovatosi con le carnose labbra di lei sulle sue, corrispose. Scivolarono dal sofà, si ritrovarono sul grande soffice tappeto persiano steso davanti al camino, stretti, avvinghiati, indissolubili. Pur frenetici, riuscirono a denudarsi. “Che seni! - esclamò in sé Fulgenzio. - Chi mai l’avrebbe detto? Possibile che alla sua età li abbia ancora così carnosi e così poco pendenti? Forse perché non ha avuto figli… forse.” E smettendo di pensare ci dette dentro ad accarezzarli, baciarli, morderli, mordicchiarne e succhiarne avidamente i capezzoli, grossi e pieni come morule mature di gelsi rossi. E, al contrario del povero Luigi borgataro, la strada della grotta fu subito trovata: aveva un ingresso carnoso, grosse umide ninfe, un passaggio alla lunga galleria ancora così stretto… Non ci fu bisogno di alcuna ‘pisciatina orientativa’ insomma: tutto avvenne nel migliore dei modi, tutto, con l’aiuto della loro fantasia, come se si fossero presi vergini, tanti e tanti anni prima.

Enzo Campobasso


 Redazione

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 02/01/2012 -- 08:33:13 -- vincenzo

Noto che, in 24h, solo 19 sono stati i lettori di questo racconto, cioè, una media inferiore ad 1/h, mentre, nelle prime ore di ieri mattina, erano stati già 13. Devo pensare che, chi ha letto, fosse ancora in preda all'euforia del cenone precedente? O che, chi non ha letto, lo abbia fatto perchè la foto dell'anziana coppia fa presagire trattarsi di "amore senile", quindi non apprezzabile, non desiderabile, fors'anche non acconcio?

 
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