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14/12/2011

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VIENI A PRENDERE UN CAFFÈ CON ME…

Clicca per Ingrandire Ecco, vorrei invitarti per un caffè, giusto per un caffè. Insomma, non per molto tempo, solo quello necessario per bere un caffè. Come dire: roba di un quarto d'ora o di una mezz'oretta al massimo. Così, tanto per parlare un po' da vecchi amici, anche se ‘vecchi’ è un aggettivo fuori luogo, e sai che non sto parlando per me. Certo, obietterai, a un tavolino di un bar le cose da dire sono sempre quelle: il tempo che fa, il tempo che passa, il tempo che non torna… Sì, perché il tempo di un caffè è un lasso di tempo breve. E’ lo spazio di un momento che invita al discorso banale, ai luoghi comuni, alle cose già dette. Lo so, e non occorre ricordarmelo. Diciamo allora che il mio invito è unicamente per il piacere di bere un caffè in tua compagnia. Perciò, se preferisci taceremo, consumando il contenuto della tazzina in silenzio.

Forse sarà pure meglio così, le parole non ci distrarranno e, zitti zitti, potremo osservarci maggiormente sorseggiando la nera bevanda. Così potrai vedere come sono cambiato, e io come tu sia sempre la stessa. Eppure, è passato molto tempo. Oppure parleremo. E cosa importa se saranno argomenti triti e ritriti che abbiamo già sentito o detto dieci cento mille volte: che importa? Non importa. Non m'importa. Perché tu mi basterai, e il contenuto delle parole sarà tutto sommato irrilevante poiché mi concentrerò sul suono che produrranno, sulla loro melodia. Questo mi basterà. La tua presenza mi basterà. Dovrà bastarmi, il tempo di un caffè, a pretesto di un tempo dato. Un dono, e il privilegio sarà stato il mio.

Certo, dandoci appuntamento dovrò fare molta attenzione a non sbagliarmi di persona. Mi toccherà essere estremamente preciso sul giorno e l'ora, e ovviamente anche sul luogo. Il rischio è grosso, ne sono cosciente. Ma se accadesse, sarebbe solo per i sentimenti che mi legano a te. L’amore ne è il vero responsabile... ti fa apparire dinanzi a me ovunque vada: in metropolitana, per la strada, fra la gente, dappertutto. A volte mi confondo e ti vedo lì e poi lì e infine ancora lì, e avrei voglia di chiamarti e invitarti a bere un caffè. Oppure, quando per caso siamo seduti accanto in autobus, mi piacerebbe anche solo sfiorarti una spalla o i capelli, ma poi mi riprendo e mi rendo conto che non sei tu. Eppure sei tu. Avrei giurato fossi tu. Allora non dico nulla e mi contento di guardarti in silenzio, spesso perdendomi nel tuo sguardo che non è il tuo ma, in un certo qual modo è come se lo fosse, e forse un po' lo è.

Il tempo di un caffè. Un quarto d'ora per prendere un caffè. A berlo, potremo andare nel barettino del quartiere davanti al quale passavamo tutti i giorni senza mai entrarvi, molto tempo fa. Ti ricordi? Ogni volta che lo oltrepassavamo facevamo un commento sull’insegna tutta scolorita raffigurante un cucù, e ti dicevo: «Ma guarda! Questo bar è vecchio come il cucù!», e l’osservazione ci faceva ridere parecchio. Il ‘cucù’ ti faceva ridere, e allora te ne facevo l'imitazione per riempirmi l’anima della tua risata che mi allargava il cuore. Un secolo fa.

Ecco, il bar del ‘Cucù’ mi sembra il luogo più adatto per noi. Inoltre, sarebbe l'occasione per scoprirne l'arredamento, e la faccia del barista che non abbiamo mai conosciuto, anche se probabilmente non sarà più lo stesso. Ma la scelta del locale è pure per compiere una piccola follia insieme. Per fare qualcosa che non abbiamo mai osato fare, perché tu eri sempre la stessa (e forse, se te l'avessi proposto, l'avresti anche accettato), ma io sono molto cambiato e a quel tempo certe cose non le facevo mai, perché ero ingenuo e credevo scioccamente che il nostro tempo non sarebbe mai terminato. Eppoi vorrei fosse mattina: magari alle dieci di un giorno qualunque, dimmi se ti va bene. Per me sarebbe il momento più appropriato per incontrarti, ché la sera mi viene sempre un po' di nostalgia e il separarci di nuovo mi renderebbe ancora più triste.

Bene. Se siamo d'accordo sul posto e l’ora, adesso è tempo d'immaginarti perché ho bisogno di avere una figura nitida di te, altrimenti mi sbaglierei di tempo e luogo. Vediamo... ti presenterai all’appuntamento con la bellezza insolente che da sempre ti porti appresso. Arriverai col passo, il gesto, il fare che non hai nemmeno bisogno di ostentare perché, di fatto, ti sono naturali. Allora ti siederai con grazia di fronte a me e mi guarderai sorridendo. Ma sarò già perduto. Nel disegno della tua figura: nel volume dei capelli, nei contorni del viso. Nel fondo dei tuoi occhi luminosi, al contempo puri e maliziosi, leggiadri e malinconici. Perso... nel canto silenzioso del tuo essere tutto. E ti prenderò la mano, delicatamente, con tutta la dolcezza di cui sono capace, e forse staremo così per un po’ senza dirci nulla. Poi ordineremo: «Due caffè per favore, uno lungo, per me» affinché questo momento si allunghi e si dilati per quanto possibile, il più possibile, per noi.

Avrò voglia di piangere, ma non ti preoccupare: sono un uomo e so come fare per trattenermi, e non voglio sciupare il tempo concesso in lacrime inutili. Il pianto potrà scorrere libero più tardi, nel segreto dei miei non dire. Magari nella metropolitana, quando sarò fra la gente e sarai già andata via. Ora no. Non adesso, non in questo tempo. Ora controllo l’emorragia del cuore perché ci ho messo un piccolo rubinetto a stabilirne il flusso. Come una flebo che, goccia a goccia, distilla il contenuto al paziente bisognoso di cure. La mia cura sei tu, la mia malattia sei tu. E io sono il dottore che ha spalancato il petto e stabilisce la prognosi: «Cuore intoppato che sanguina: occorre aprire subito e togliere il grumo, poi disinfettare e richiudere per benino. Non resterà che la cicatrice.» Già, la cicatrice... Ma una cicatrice è solo una zona più sensibile rispetto al resto: la senti se fai un movimento insolito, o quando cambia il tempo, per il resto niente. Tutto sommato, con una cicatrice si può vivere normalmente, solo con qualche dovuta precauzione, s’intende.

Spingo la porta del bar del ‘Cucù’ e la prima constatazione è che l’insegna all’ingresso è cambiata, il nome del locale non è più quello di allora: ora si chiama ‘Il caffè del Tempo nuovo’. Mi rendo conto che erano anni che non passavo più da queste parti. Entro. C’è da dire che l’interno è coerente col nome del posto: l’arredamento è molto moderno e davvero adatto al gusto odierno. Però, a dispetto di tutta la modernità che il mobilio propone, affisso al muro di fronte all’ingresso vedo un vecchio orologio a cucù. E’ una casetta dal tetto spiovente di legno marrone con una bella finestrella a imposte chiuse proprio sopra il quadrante, dalle cui fondamenta scendono due pigne di bronzo. Segna le dieci meno cinque, fra cinque minuti arriverai. Per intanto, il bar è vuoto. Tutti i tavolini, lustri e tirati a specchio, sono liberi. Prendo posto a uno adiacente alla vetrina, così potrò vederti arrivare e non sarò preso alla sprovvista. Anche pochi secondi possono essermi preziosi ora.

Aspetto. Ormai è questione di qualche minuto poi entrerai da quella porta. Qualche minuto: poco tempo. Tempo preso al tempo per immaginare come sarebbe stato se fossimo entrati insieme qui, tanto tempo fa. Probabilmente, il Cucù stava già piantato lassù a guardiano del tempo del luogo. Vedendolo, saresti sicuramente scoppiata a ridere nella freschezza dei tuoi vent’anni. Mi avresti preso sottobraccio a sostegno della spensierata allegria che faceva di te una persona unica e insostituibile. Avrei riso anch’io nel porgerti la sedia: ti piacevano le piccole attenzioni di cui ero capace. Poi avremmo ordinato da bere trattenendo a stento le risate per non offendere il barista che aveva sempre un atteggiamento così serio. E sorseggiando una bibita avremmo parlato di cose comuni, irrisorie, di cose di tutti i giorni, e ci sarebbe bastato. Ma non avremmo parlato del tempo, perché in fondo in fondo del tempo non ce ne importava nulla. Insomma, semplici cose che avremmo fatto tenendoci per mano perché allora era così, un modo come un altro per sentirci completamente felici e appagati.

C'è silenzio nella sala. Durante l’attesa, le orecchie mettono a fuoco la scansione del tempo dell’orologio a cucù. Posso percepirne il tic-tac continuo e inesorabile. D’un tratto, ci siamo: un volatile impettito ha preso ad affacciarsi ripetutamente dal balconcino emettendo un suono goffo e stridulo: «Cucù, cucù…». Sono le dieci. Mentre si sgola in meccanici gorgoglii, le pigne cominciano a scendere lungo le catenelle grazie a un misterioso rapporto che intrattengono con l’uccello impagliato appeso alla parete. A ogni rintocco provo un leggero sussulto al centro del petto, una sorta di dolore impercettibile e intermittente, ma non riesco a stabilire se segua il ritmo del tempo o quello del cuore. Mi dico che il Cucù mi sta ingannando, forse lo ha sempre fatto. Già, perché la discesa delle pigne è subordinata al canto del pennuto, dandomi l’illusione che il tempo si muova solo in un certo tempo. Invece è un fluire costante e continuo che non conosce pause né interruzioni, è un movimento inarrestabile.

- «Cucù, cucù…».

Un po’ come quando, da bambini, si giocava a ‘Un, due, tre, stella’: c’era il tempo della corsa e quello dell’attesa. Ma era un tempo ascendente, un tempo d’aspirazione la cui ricompensa era il poter dare un bacio alla regina. Il premio di esserne il re, magari solo il tempo di un gioco. Inversamente, il tempo del ‘Cucù’ è discendente: una caduta trattenuta, verticale, verso il basso. Fino a quando le pigne non avranno raggiunto il limite e non si avrà più la forza di ricaricarle, a segno che la danza del tempo sarà terminata per noi.

- «Cucù, cucù…».

Se avessi un fucile, credo tirerei su questo zimbello posticcio.

- « Cucù, cucù. »: le dieci precise.

La porta si apre e una coppietta entra rumorosamente nel caffè. Seguo con lo sguardo i due ragazzi che vanno a sedersi a un tavolo un po’ appartato, in un angolo del locale. Avranno pressappoco vent’anni. Mentre parlano, lui le accarezza i capelli con la mano. Forse non si sono accorti che li sto osservando. O forse sono indifferenti a me, al mondo circostante e a tutto cio' che non sia ‘loro’ perché gli sguardi, le parole, le carezze che si scambiano possono bastare, e a vent’anni non c’è bisogno d’altro per stare bene. La cameriera, venuta a prendere l’ordinazione, mi distoglie dai miei pensieri. «Buongiorno, posso servirla subito, oppure sta aspettando qualcuno?»
- «No signorina, non aspetto nessuno; vorrei un caffè, per piacere.»
- «Subito signore.»

Vuoto la tazzina in pochi sorsi, poi esco dal bar. Una folata di vento freddo mi ricorda che siamo alla fine dell’autunno. Alzo il bavero della giacca e affretto il passo, sta cambiando il tempo: forse oggi pioverà.

Luigi Scarabino

 Redazione

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 19/12/2011 -- 15:46:49 -- vincenzo

Ti basta un "BRAVO!", Luigi? Fai dilatare l'attenzione, fai salire l'attesa, fai crescere la "suspense" quasi allo spasimo, poi... la caduta, verticale, di una (bella) delusione che vien giù quasi repentina, inesorabilmente, precipitevolissimevolmente!

-- 19/12/2011 -- 15:56:57 -- vincenzo

Mi è sfuggito di dirti che non capisco l'incipit del 3° cpv: perchè hai paura di sbagliare persona, se (sia pure nell'immaginario) vi siete amati, un tempo? Ciò non inficia il mio giudizio espresso in positivo.

 
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