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01/11/2011

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ARACNE, LA TESSITRICE

Clicca per Ingrandire Non ho compiuto ancora cinquant’anni e mi posso già considerare (anzi, ‘sono’ del tutto) soddisfatto della vita: buon lavoro, non ricco di dovizie, ma sicuramente ricco di altre cose, quali l’affetto di molti amici e amiche e di tutti i miei familiari, cui è da aggiungere, ovvero da premettere, per importanza, l’amore di e per mia moglie. Insomma, sono in uno stato di grazia tale che nulla desidero se non di conservare quanto più a lungo possibile questi beni. ‘Sono’ ho detto. In realtà, dovrei dire ‘ero’. Qualcosa, infatti, in queste ultime settimane è venuto a turbare la mia tranquillità, la mia ‘pax’. Seppure si tratti di qualcosa che, piano piano, ma decisamente, sta già dileguandosi, come si dileguano i nuvoloni dei temporali estivi.

Sono qui, sulla bella spiaggia di un paesino del Gargano da qualche giorno dopo la chiusura delle scuole. Sulla sabbia dorata giocano bimbe e bimbi, nel mare cristallino (quando è in buona, altrimenti diventa del colore della battigia verso riva e verde e poi azzurro, a larghe strisce, a mano a mano che ci si avvicina alla linea di orizzonte), ragazzi e ragazze, uomini e donne. Una sola persona farebbe ancora eccezione a questa regola, se non fosse ormai partita: una quarantenne solitaria venuta a questo mare dalla sua Maremma. Scendendo di buon mattino, la notavo, a buoni venti metri dalla riva, seduta o distesa sopra un telo azzurro con larghe bande bianche, intenta a leggere libri o riviste o a conversare al suo cellulare.

Pelle naturale, bianco-rosea (che sarebbe rimasta inalterata per tutta la durata della sua permanenza al mare), capelli neri corvini lisci, legati sulla nuca con un nastrino color oro che le pendeva, vicendevolmente, una volta sulla spalla destra, un’altra sulla sinistra, a seconda della di lei posizione, occhiali scuri, con montatura leggera, che mettevano in risalto il profilo del suo naso diritto e delicato in mezzo a un visino sfinato ma non lungo; labbra non eccessivamente carnose, cinabrine, tutto in tono con il resto del corpo, appena coperto da un bikini color rosa pallido, che ben si addiceva al pigmento della sua pelle; due grossi cerchi d’oro a ornare i lobi delle belle orecchie.

Raggiunto questo posto, divenuto ‘solito’ nel corso degli anni (sempre che qualcuno non mi precedesse, cosa del resto poco probabile, visto che sono molto mattiniero), mi sdraiavo e, guardando qua e là, spesso indugiavo con lo sguardo, discreto, quasi furtivo, su quella scena. Non so se perché le dava fastidio la mia indifferenza o se perché già aveva dei progetti in mente, dopo essere rimasta inattiva per un paio di giorni, al terzo prese ad allontanarsi dal suo telo e a gironzolarmi intorno. Mi sentivo come un fiore preso di mira da un’ape, da una farfalla. Ne ero lusingato, mi piaceva il gioco, ma sentivo pur nascere in me qualche apprensione. Come avrei reagito al suo corteggiamento, una volta che fosse stato attuato in pieno? Non lo sapevo. Non avevo mai vissuto una simile esperienza.

Non avevo corteggiato se non mia moglie e, personalmente, non ero stato mai corteggiato da qualcuna. Soprattutto, non mi era mai venuto in mente di ‘tradire’ la mia affettuosa compagna, sicuro che nemmeno lei aveva mai avuto motivo di ‘tradire’ la mia fiducia. Insomma, stavo per vedermi sommerso da un grosso guaio. “Perché non te ne vai più in là”, le chiedevo mentalmente, sperando che la mia richiesta fosse da lei recepita telepaticamente. Ma il mio messaggio non doveva mai raggiungere la destinazione da me desiderata. E, di conseguenza, nemmeno alcuna risposta, alcuna reazione. Così, rimasi inchiodato al mio posto, al quale non riuscivo a rinunciare.

“Bel mare, oggi, vero?” sentii dire dietro di me, sul lato sinistro. Qualche attimo di titubanza, poi mi voltai… vinto! “Sì, bello, veramente bello! E tanto più apprezzabile, quanto più a lungo è stato burrascoso, quest’anno, con tutto il suo susseguirsi di mareggiate che non hanno mai tenuto la spiaggia completamente asciutta”, risposi. Lei sorrise, accattivante, e riprese, ancor più evidenziando il suo accento toscano: “Sarà miha fredda l’acqua?Farei volentieri un bel bagno. Hon mi piace he le onde mi schiaffeggino. Oggi l’è davvero bello, è giusto per me. Lei non si bagna miha?”

Pareva tutto pronto, tutto elaborato e calcolato, quel che mi aveva detto. “A me nemmeno piacciono le onde. A differenza di quando ero ragazzo, che le preferivo al mare calmo. Le farò compagnia, se questa è la sua richiesta sottintesa”, azzardai, fra il timoroso e l’ardito. Non rispose a tono, ma si presentò: “Uliana”. “Giuliana?” chiesi, fingendo di non aver capito. “No. Uliana. U-L-I-A-N-A. Vengo di Maremma, in Toscana, ma ‘la mi nonna l’era friulana’. Era il nome di sua madre, morta proprio qualche giorno prima che io venissi al mondo”, spiegò. “Okkei - dissi e ripetei, sillabando - U-L-I-A-N-A. Io, invece, sono Giulio, senza possibilità di equivoci. Ma forse hanno la stessa provenienza: Giulio da ‘Iulius’, Uliana da Giulia, passando per Giuliana ovvero, più direttamente, dallo spagnolo ‘Juliana’, che si pronuncia ‘Huliana’, trasportato in Friuli dagli spagnoli stessi. Beh, qualunque sia la spiegazione, vada per una bella nuotata e non se ne parli più!”

Lei sorrise, divertita, e ce ne andammo, calmi, verso l’acqua, chiacchierando come due che si conoscessero da molto, molto tempo. C’inoltrammo, fino a quando, vinte le prime riluttanze a causa dell’acqua non proprio calda, piegammo le gambe e ci facemmo sommergere fino al mento. Dopo, prendemmo a nuotare, con bracciate calme, cadenzate, tranquille. In silenzio. Giunti alla terza secca, si fermò. Si accorse di non toccare il fondo e volle provare a immergersi. “Non è molto profondo: saranno due metri”, mi riferì. “Sarebbe bello disporre di occhiali e respiratore: potremmo cercare ‘lupini, noci, fasolari’ e qualche altro frutto di mare”, dissi, sospirando. “Lo faremo un altro giorno, se sarà possibile. Ora faccio qualche altra piccola immersione così, in piena apnea. Non ho molto fiato, non sono allenata. Però mi piasce”. Non fece in tempo a dire l’ultima parola (appositamente pronunciata con pieno accento toscano) che già era svanita nel liquido elemento salato, dalla trasparenza cristallina.

Questa volta la imitai. Intravidi la sua lunga sagoma da delfina, da sirena. E come delfina o come sirena, era perfettamente nuda. Perfettamente liberi e nitidi, nella maggiore vicinanza da me guadagnata, i suoi seni, più chiari del resto del corpo. Così com’era chiaro che non v’erano mutandine a nascondere il suo scuro triangolino all’apice di quel lungo compasso di gambe. Un triangolino da cui, dopo ogni reimmersione, si sprigionavano minuscole bollicine d’aria, rimaste impigliate tra la vegetazione fluttuante del Monte di Venere. “Ah, avere ancora i miei occhi di ventenne!” sospirai, convinto che lo spettacolo sarebbe stato più bello e decisi, convinto che non valesse la pena di accontentarsi di quel poco, di non reimmergermi.

Galleggiando ‘a morto’, mi disposi ad attendere che anche lei si stancasse e mi imitasse per riguadagnare la riva. Invece, pareva instancabile! Saliva, riprendeva fiato, ridiscendeva, mostrandomi una volta la parte anteriore del corpo, con i seni che passavano puntando, minacciosi, i capezzoli al cielo, quasi schiaffeggiando l’aria, una volta la parte posteriore, l’arco della sua schiena, il suo fondoschiena contrassegnato da glutei possenti e allungati come due gigantesche prugne, candide come un candore d’innocenza. Alla fine riemerse. Ricomposta. Senza che fossi riuscito a capire dove teneva i due pezzi del bikini, anche se erano tanto piccoli da poter essere tenuti stretti in pugno (cosa che io non avevo comunque notata).

Tornammo a riva. Senza parlare. La invitai a sedersi sulla mia sedia, lei fece cenno di no. Andò a prendere dalla sua borsa un soffice asciugamano rosa e venne a farsi asciugare le spalle. Sempre in silenzio. “Sei bellissima. Non dire che è un complimento di circostanza; è un complimento che meriti e che, perciò, non posso tacere”, mi feci coraggio a dire. “Grazie”, rispose, laconica, ma il suo sguardo tradiva una giusta fierezza, un giusto orgoglio e un lecito autocompiacimento. Sapeva di essere una bella donna, ma sentirselo dire, raddoppiava la sua felicità. La sua laconicità poteva voler dire solo una cosa: che poteva essere fiera di sé, ma che non era vanitosa. Quel che non capivo era il suo libero comportamento, con un uomo che non era certo un ragazzino, a pochi momenti dalla presentazione. Cosa voleva, realmente? Voleva solo uno spettatore? Voleva beare qualcuno della sua bellezza, dei suoi meravigliosi attributi? E aveva scelto me intenzionalmente o per puro caso? O mirava ad altro? E a cosa? Lo avrei saputo o non lo avrei saputo? A quel punto, ero ormai pienamente incuriosito.

Intanto, si era fatto tardi, il sole picchiava forte, la fame, in lei, doveva farsi sentire, con più o meno atroci crampi, come nel mio stomaco la mia. Me lo dichiarò, quasi subito: “Vado. Ho fame. E mi sento pure un bel poco stanca, oggi. Ho bisogno di mangiare e riposare un tantino. Non so nemmeno se scenderò, questo pomeriggio. Sono da sola. Alloggio in quella casetta bianca nascosta dal muro lungo la strada che parte dall’incrocio vicino casa tua e si snoda verso levante. Se ti va, puoi raggiungermi per un caffè. Non ti invito a pranzo perché, con tutta sincerità, non ho molto: tengo il frigo quasi sempre vuoto, per non subire tentazioni: due pomodori, un po’ d’insalata, qualche yogurt. Nient’altro. Ciao” e, raccolte le sue cose, se ne andò. Decisa. Senza voltarsi a guardarmi mentre la vedevo allontanarsi ancheggiando, seppure non accentuatamente.

Rimasi. A bocca aperta. Non tanto per il torrentello di parole emesso dalla sua, ma quanto per il fatto che avrei voluto dire qualcosa che non riuscii a dire. Qualche minuto dopo, non appena scomparsa dal mio angolo di visuale, lasciai la spiaggia anch’io. Anch’io non avevo gran che da mangiare: da quando mia moglie era ripartita coi miei figli (lei per riprendere il lavoro, i bambini per loro altri impegni) uscivo raramente e mi rifornivo solo dello stretto necessario per qualche giorno: ero divenuto frugale al massimo, anche per perdere qualche chilo che mi appesantiva, più psicologicamente che non realmente: era mia moglie che mi vedeva le ‘maniglie dell’amore’, che altri, meno gentilmente, chiamano ‘salvagente’ o ‘taralli’; io mi sentivo bene.

Dopo una tiepida doccia, con un asciugamano indossato a gonnellino, mi preparai una bella fetta di pane casereccio condita con pomodorini e olio d’oliva, un po’ d’insalata verde, due pesche al vino bianco. Il tutto, svogliatamente. Ma non per quella svogliatezza, quella inappetenza che prende chi s’innamora: era abulia, apatia, voglia di niente. In realtà, stavo conducendo la mia grande battaglia contro un esercito di angeli che mi volevano puro e casto, così come mi ero mantenuto per tutta la durata della mia vita precedente. Avrei - lo giuro! - avrei preferito combattere contro i diavoli: forse sarei riuscito meglio, perché sono convinto che combattere contro i cattivi sia cosa giusta, contro i buoni, ingiusta. Dire no alla tentazione mi pareva più facile che dire sì a chi voleva dissuadermi da un atto d’infedeltà, d’illiceità, anche a voler vedere la cosa sotto un profilo legale o di giustizia.

Non lo so. Non so nemmeno cosa io stia farfugliando in questo momento. So solo che mi sentivo tanto confuso che non sapevo nemmeno io cosa pensavo, cosa facevo. A me pareva di combattere contro gli angeli! So solo che mi sentivo come un’indifesa nottula inesorabilmente attratta e abbagliata dalla luce di un lampione e destinata a soccombere. Mi sentii addosso la voglia (la volontà, forse) di non combattere, di lasciarmi andare. All’avventura, ovvero anch’io, novello Ulisse, a esplorare l’estremo mare verso le Colonne d’Ercole! Avrei avuto voglia perfino di riprendere a fumare! E lo avrei forse fatto se avessi avuto sigarette disponibili o facilmente raggiungibili. Per fortuna, fui forte abbastanza da non farlo succedere. La pena sarebbe stata solo quella di ritornare, per l’ennesima volta, a essere schiavo di uno squallido, insignificante, schifoso involto di carta e filini di foglie, tutto a danno della mia riacquistata piena salute, nonché - fatto estremamente più importante - della mia riconquistata umanità.

Al di là di questa mia vittoria, le smanie! Le smanie mi divoravano, irrefrenabili, incontenibili. Tanto da parere invincibili. Stavo per annientare i miei angeli. E dopo spasmodici interminabili minuti di lotta, se proprio non li eliminai, riuscii ad allontanarli da me. Mi abbigliai con semplici pantaloncini e una canotta, uscii di casa e raggiunsi il cancelletto di Uliana. Non mi aspettavo di trovarlo aperto; pensavo che avrei avuto necessità di suonare, per farmi aprire. Non so che mi prese: non suonai. Entrai, quasi come per recarmi a perpetrare furti, guardingo, con le orecchie tese, pur non sentendomi addosso il fare del ladro. Istintivamente, però, varcato il cancello, feci scattare la serratura, a evitare che qualcuno si insinuasse, mi seguisse e venisse a disturbarmi.

Raggiunsi la piccola rampa di gradini che portava sul terrazzino, salii. Anche la porta di casa era aperta. Mi introdussi, senza far rumore. Il silenzio dell’ambiente mi suggeriva altrettanto silenzio: non dovevo far rumore. L’ambiente (soggiorno con angolo cucina) era lievemente in disordine, dato che un po’ a tutti capita, stando in vacanza, di farsi sovrastare dalla voglia di non fare. Nell’angolo destro, in fondo, una gradinata interna, che portava al piano superiore. Non trovandosi giù, era logico che Uliana fosse su. Mi ci avventurai. Giuntovi, mi trovai in un corridoio che si estendeva per quasi tutto quel lato della casa. Vi erano tre porte, tutte completamente aperte.

Mi affacciai alla prima, poi alla seconda: senza successo. Alla terza, come ormai davo per scontato, la donna. Nuda. Completamente nuda, come l’avevo vista nel mare cristallino della mattina. Qui, però, del tutto rilassata, braccia e gambe allargate, per beneficiare appieno della correntina d’aria causata dall’apertura contemporanea della porta e della finestra, esposta a oriente, le poppe, verso l’alto la sinistra, lievemente inclinata a destra quella destra, gli occhi chiusi, le palpebre tranquillamente distese, il respiro regolare, profondo, di chi dorme saporitamente. Mi avvicinai, attratto come un inerte pezzo di metallo dalla calamita, mi accinsi a sfiorarla, a toccarla…

Invece, mi fermai, con il braccio allungato, le dita nell’atto di ritirarsi nel pugno. Perché svegliarla? Mi sedetti e rimasi estatico a guardarla. Nonostante le sue gambe larghe, la figura non tradiva alcun senso di volgarità. Me ne gustai la scena per oltre un’ora, mentre lei, di tanto in tanto, cambiava posizione, offrendomi, del suo statuario corpo, tutte le possibili inquadrature, una più bella dell’altra. Improvvisamente mi alzai, in preda a non so quale impulso. So solo che mi ritirai, furtivamente come prima, riguadagnando piano piano casa mia, dove raggiunsi il letto e mi lasciai cadere. Direttamente in braccio a ‘Ipnos’. Anche se la mia mente era assillata da tanti pensieri, da tanti interrogativi. Mi svegliai di soprassalto. Era passata mezzanotte. Mi pareva che qualcuno avesse battuto al mio cancello, sprovvisto di campanello (ovvero, provvisto, ma inefficiente da un bel pezzo di tempo a causa della mia indolenza e dell’abulia, associata alla voglia di pigrizia, di cui parlavo anche prima).

Corsi sul terrazzino. Nessuno. Rientrai, mi spogliai, infilai il costume e me ne scesi al mare. L’acqua, una tavola, anzi, una lavagna. Nera! Nel cielo, le stelle erano inutili lucciole, insufficienti a illuminare la liquida distesa su cui di tanto in tanto si scorgevano le luci dei pescherecci, intermittenti, a causa della diversa densità dell’aria incontrata nella loro traiettoria, esattamente come avviene per le stelle. Lasciai cadere il mio telo sulla sabbia ormai fredda, anche se perfettamente asciutta, mi sfilai i sandali e corsi, corsi come quando ero ragazzo, a tuffarmi, a stordirmi, ovvero, se possibile, a farmi asportare via dal cervello tutte le immagini e i pensieri immagazzinati nelle ultime ore, tutte le pene e le angustie che mi stavano ancora causando.

Riemerso, presi a nuotare con bracciate poderose, nervose, per potermi snervare, per poter riguadagnare la mia solita, ordinaria calma. Ma il mio disegno non doveva essere realizzato: qualcuno vi cospirava contro. Nello stesso momento in cui avevo deciso di dare l’ultima bracciata verso il largo per poter tornare a riva, per poco non mi scontrai con qualcosa di solido galleggiante a me davanti. Da un fulmineo esame, dedussi che non poteva trattarsi di una imbarcazione: la sagoma era quasi inesistente. Presi un bello spavento. Ma proprio la forza della paura mi dette il coraggio di fermarmi, fissare gli occhi nel buio e sorprendermi. La sorpresa (e forse una paura analoga alla mia) doveva essersi verificata anche in quella che mi pareva una cosa aliena e, nello stessissimo momento, ci trovammo l’uno a pronunciare il nome dell’altra - “Uliana!” … “Giulio!” - e per la gioia di un supposto scampato pericolo stavo per slanciarmi nelle sue braccia.

Soffocai l’impulso, non mi mossi. E rimasi in silenzio. Parlò lei. “Perché non sei venuto?! - mi domandò, con tono di apostrofe, di rimprovero. - Ti aspettavo. Ti ho aspettato fin quasi mezzanotte, con la caffettiera carica. Il caffè l’ho preso da sola, solo da poco. So di essermi addormentata, nella vana attesa della tua visita. Ti sei addormentato pure tu? Mi hai cercato, dopo? Sono qui da… credo almeno un quarto d’ora prima di te, o forse mi sbaglio, non so, non ho più la cognizione del tempo”. “Nulla di tutto ciò – esordii. - Sono venuto, in silenzio, come mi pareva che tu volessi suggerirmi coi tuoi silenziosi messaggi, quale il cancelletto socchiuso, la porta di casa spalancata, perfino le camere da letto al piano superiore completamente aperte, inclusa la tua, dove tu dormivi profondamente, completamente nuda. Sono rimasto un’intera ora a guardarti, in preda al diletto, in preda al desiderio di avvicinarmi, di toccarti, di stringerti, di baciarti, di… di… Non ti ho voluta svegliare, ho voluto rispettare il tuo riposo”.

“Dormivo, sì. Diciamo che mi ero addormentata più per intenzione che per vera necessità di farlo. Era così che volevo che tu mi trovassi. Mentre, addormentatami col pensiero di te, ti stavo sicuramente sognando. Mi sarei svegliata a un tuo bacio, come ‘La bella addormentata nel bosco’, una favola che mi è sempre piaciuta, la favola, anzi, che ho sempre prediletto nella mia infanzia, e oltre. Mi spiace che tu non abbia capito quest’ultimo messaggio. Mi sarebbe piaciuto”. E qui si tacque, per procedere, in silenzio, a sfilarmi il costume. Un costume che non stavo indossando, perché anch’io amo nuotare adamiticamente, specialmente nei miei bagni di mezzanotte. Non c’era piede, in quel punto. Abbracciati, a forza di gambe, ci spostammo più giù, fino a quando non toccammo la sabbia del fondo. Mi si avvinghiò con le gambe e lavorò fino a conseguimento di successo. Al resto (ormai ero preda senza possibilità di scampo, come un povero agnello nelle fauci del lupo!) pensai io, con lenti, ritmati saltelli ‘surplace’, fino a quando non ci sentimmo venir meno le forze. Divincolati, raggiungemmo la riva, raccogliemmo le nostre cose e ci dirigemmo a casa sua, nel suo letto, a recuperare, fino alle prime luci dell’alba, quel che ci eravamo perduti il pomeriggio del giorno precedente.

La storia continuò nei rimanenti giorni, ma raccontarla potrebbe risultare molto noiosa. Posso solo dire che ci prendemmo sempre molto vogliosi, sempre tacendo. Non sentivamo la necessità di parlare, non sentivamo soprattutto la necessità di dirci ‘t’amo’, un verbo in quelle circostanze perfettamente inutile, idiota, anche!

Enzo Campobasso


SCHEDA DELL’AUTORE (per conoscerlo meglio) = Nato a Cagnano Varano (Fg) il 10 settembre 1938, vive a Rodi Garganico (Fg) fino all’adolescenza poi a Foggia come studente al Liceo-Ginnasio “V. Lanza”, quindi a Macerata, Vicenza, Foggia, Gioia del Colle (Ba), ancora a Foggia, Roma, Manfredonia, Nimy e Mons (Belgio), di nuovo a Roma, poi, dal 1983, in Foresta Umbra-Gargano. In pensione dal 1991, risiede dal 1995 a San Giovanni Rotondo. Laureato in Filosofia alla Sapienza di Roma, si cimenta con la poesia dal 1966. Partecipa al primo concorso nel 1994 ed è subito successo, rinnovato l’anno dopo, a Deliceto (Fg). Dal 1996 a oggi, oltre a numerosi premi minori (Parole ed Immagini, Antica Badia di San Savino, Histonium, Ignazio Silone, Le Quattro Porte, Litorale Pisano, Fernando Pessoa, Moicarte, Città di Accadia, U. Fraccacreta e altri) e a un terzo premio (Histonium, settembre 2005, con “Tsunami”) ottiene alcuni secondi premi (La Penna d’Oro, Pessoa-Editoriale Sette, Peltuinum) e due primi premi (Brontolo, Editoriale Sette). Il 2003 da Vasto (Ch), gli viene conferito l’Histonium d’Oro “per meriti letterari”.

Il 1996 scopre l’ Haiku (breve componimento a carattere lirico, composto da 17 sillabe disposte in tre gruppi rispettivamente di 5, 7 e 5, tipico della tradizione poetica giapponese; ndr) e se ne innamora in modo tale da comporne, fino a oggi, poco meno di duemila. Con gli haiku miete subito ragguardevoli risultati, fino a classificarsi primo al G. Gronchi (due volte), alla Primavera Haiku (Il Grillo di Milano, due volte) e all’Andrea da Pontedera. Il 2001 pubblica con Blu di Prussia Editrice-Piacenza la sua opera prima, “Traduzioni e Sussurri dell’Esserci”, antologia di soli haiku, presentati dal poeta-saggista A. Bonchino da Roma. Finalista primo escluso al Lodoletta Pini, questo libro, apprezzato oltre che da altri, innanzitutto da Giuliano Ladolfi (Atelier), Alberto Dell’Aquila (Circ. Cult. Il Maestrale) e Claudio Bedussi (La Nuova Tribuna Letteraria), nonché da F. Fiorentino, E. Lordi (recentemente scomparsi), L. Crisetti, M. Laratro, A. Izzi Rufo, D. Paiano (Il Provinciale-Fg), L. Nanni (Il Punto di Vista), consegue premi speciali a Il Porticciolo e al Borgo Ligure, e un primo premio al Francesco Bargagna di Pontedera (2003).

In marzo 2004, sempre con Blu di Prussia Editrice, vede la luce Aforisticamente-Haiku, raccolta di aforismi in rigorosissima metrica nipponica, con prefazione di A. Bonchino e postfazione di P. Saggese. Questa seconda opera, molto apprezzata da pubblico e critica (primi fra tutti G. Ladolfi, D. Paiano, L. Nanni ed E- Diedo - Il Punto di Vista), presentato da F. Simonelli (Poesia 187-2004), ha conseguito il Premio Speciale della Giuria all’Histonium 2004, nonché un terzo premio al Fauno d’Oro di Contursi Terme (Sa), in ottobre 2005. In luglio 2007 viene alla luce florilegio2007@poesia.it - antologia di autori vari - cui partecipa con trenta Haiku e dieci Tanka. In modo del tutto inatteso, il poeta, da gennaio 2005, comincia a dedicarsi anche alla narrativa, componendo in circa sei mesi di tempo ben venti racconti brevi che, in attesa di essere editi in raccolta, sono stati in parte pubblicati da Il Gargano Nuovo, in toto o in parte letti e altamente apprezzati da diversi estimatori, in particolare da Luciano Nanni (anche componente del Gruppo Letterario Formica Nera di Padova) e dal romanziere Giuseppe Cassieri (che nei primi anni ’80 lo aveva ribattezzato Il Rodianino).

 Redazione

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 05/11/2011 -- 18:13:30 -- Paolo

l'ho letto di slancio, Enzo. Apprezzo molto il disegno di Uliana Huliana Juliana Julia, la 'h' toscana, ....

 
Dx
 

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