Testa

 Oggi è :  22/12/2024

Benvenuto  nel Giornale

CERCA GLI ARTICOLI :

  

Testo scorrevole
Sx

  L'ARTICOLO

20/10/2011

Dimensione carattere normale  Ingrandisci dimensione carattere  Ingrandisci dimensione carattere

Segnala

A PROPOSITO DI DIALETTI (… E DELLA GRAMMATICA PESCHICIANA)

Clicca per Ingrandire Il dialetto, le sue poliedriche funzioni, il rapporto con la lingua nazionale, le produzioni dialettali in Capitanata, la possibilità che il dialetto diventi materia di studio, i pregiudizi sul dialetto hanno costituito l’oggetto di studio del convegno organizzato dalla prof.ssa Nunzia Quitadamo, commissario della Sezione Regionale di Dialettologia e Demologia della Società di Storia Patria per la Puglia in collaborazione con il Comune di Manfredonia che ha avuto luogo nell’auditorium di Palazzo dei Celestini il 13 e 14 ottobre. Tema attuale, dibattuto a livello nazionale, che si è prestato alle polemiche secessionistiche di chi ne ha proposto l’insegnamento nelle scuole, al fine di evidenziare le differenze, attivando di fatto nel 150° compleanno dell’Italia il processo contrario a quello avviato con l’unificazione che, attraverso l’italiano nelle scuole si proponeva l’obiettivo di “fare gli italiani”, dopo avere “fatta l’Italia”.

Nella prima giornata - che ha visto la partecipazione di diversi rappresentanti della Società di Storia Patria, di dirigenti e docenti, ma soprattutto di molti giovani liceali di Manfredonia - si sono avvicendati i saluti dell’organizzatrice, dell’assessore Paolo Cascavilla, del professore Cristanziano Serricchio e gli interventi dei docenti Marco Trotta e Armistizio Matteo Melillo che hanno indugiato rispettivamente su “La poesia in dialetto di Michele De Padova. Un amore di seconda generazione” e sulla possibilità e sui problemi di “L’insegnamento del dialetto a scuola. È possibile? Quali problemi pone?”

Ed è su alcuni spunti di riflessione emersi dall’incontro che vorrei incentrare l’attenzione, cominciando con la impossibilità di definire in modo esaustivo il termine “dialetto”, essendo il dialetto la lingua dei nonni, la lingua della concretezza, la lingua dei bambini di borgata e degli uomini di scarsa cultura, ma anche lingua in grado di esprimere la propria identità, i più profondi sentimenti e quindi di elevata poeticità. Il dialetto è soprattutto “vita”, afferma Melillo, è “necessaria capacità di esprimersi delle persone”, sbagliano perciò coloro che in base a preconcetti sogliono dire in modo perentorio: “Io non parlo in dialetto!”

Sbagliano altresì coloro che vorrebbero fissare il dialetto in un modello, una staticità che contrasta con la natura di questa lingua che è un continuo divenire nella concretezza. Sotto questo profilo non esiste il dialetto puro, ma il dialetto della persona “X” che vive in un contesto “Y”, cambiando nello stesso individuo durante la giornata, in base alle situazioni e alle emozioni. Il dialetto è lingua che cambia nel tempo: si pensi alle trasformazioni subite dall’affermazione “sì” [scin, sin, sì], oppure da strappato [scarciate, strazzate, strappate].

Il dialetto è però anche lingua che cambia nello spazio: la tendenza a confondere i suoni /nt/ con /nd/, ad esempio, in parole come “quando”, “intanto”, “mondo”, a ben guardare si registra non solo nel Gargano o in Capitanata o in Puglia, ma fino ai paesi dell’Italia centrale. Il dialetto è lingua che promuove l’identità storico-culturale, sia diacronica che sincronica, essendo i suoi termini gli effetti tangibili dei popoli che si sono avvicendati in un determinato territorio: greci, romani, longobardi, abruzzesi (durante la transumanza). Il dialetto è forma di alta composizione letteraria, quasi iperdialetto, se si pensa che l’intrusione di un termine, un aforisma o di un’espressione dialettale arricchisce tutto il testo in lingua nazionale, evocando un mondo.

Il dialetto è anche modo inadeguato e/o incompiuto di esprimersi in italiano, per il mancato rispetto di certe norme linguistiche spesso sottolineate col rosso o con il blu da quei docenti più attenti alla forma che al messaggio. “Il dialetto si può insegnare nelle scuole?” “No”, risponde Melillo, perché “il dialetto si conosce”, “perché ognuno si costruisce da sé”. Parlare di grammatica dialettale, poi, sarebbe“pura follia”.

Se il dialetto non si può insegnare, si deve però studiare a scuola come connotazione dell’esperienza dell’alunno, come storia della comunità dei parlanti, come riflessione sui modi altri di esprimersi. Fra le strategie didattiche trovano spazio lo studio dei termini che, simili a reperti archeologici, consentono di ricostruire la storia e la propria identità. Efficace anche la realizzazione di piccoli dizionari dialettali o di un museo con l’aiuto degli anziani, seguendo il percorso che va dalla parola all’oggetto, oppure la costruzione di carte geolinguistiche - ad esempio tramite il trattamento dei suoni nd/nt - che consentono all’alunno di collocarsi nell’ambito comunale, provinciale, regionale o meta regionale.

Ciò che va assolutamente evitato raccomanda Melillo è evitare di italianizzare a ogni costo: non si dica perciò: “Ho bevuto un gino”, in luogo di “ho bevuto un gin”. Il dialetto, come ho avuto modo di riscoprire con una indagine condotta con gli alunni del liceo di Cagnano Varano sulla condizione della donna contadina - confluita nella mia pubblicazione “BBèlla te vu mbarà a ffà l’amóre”, Canti e storie di vita contadina, Grimaldi 2004 - è capace di poesia tout court. Lo dicono i bellissimi versi di questo canto di serenata, la “manuuètta”, omaggio dell’allora innamorato alla signora Angela Maria.

«Nennèlla ne nde mètte cchiù a lla pòrta
E quànda vòte pàssi ji te vède
a ‘sti capìlli chi ci avìti ndèsta
Ce chiàmene chinzòla crestiiàne
Te prega bbèlla no nde li ndricciàre
Fattìli a ddòi nnòcche, làscele appìse.
Sciàta lu vènde e li vo sbalià
Esce lu sole e li fa sderlucì.

Sderlucì palòmme
E ccòme a ttè ne ngi ni sònne.
Vòla, ehi vòla, e ddìmmi tu li tùua paròle
À lu piacère vènghe quà n’avìta sèra,
Piacère ngi ni stà, jì mi vàje pùre a qua.»

Versi che vado a tradurre come segue:

«Signorinella, non ti mettere più sulla porta.
Ogni volta che passo, io ti riconosco
dai capelli che avete in testa,
si chiamano consola persone.
Ti prego, bella, non li intrecciare,
legali con due fiocchi, lasciali scendere.
Soffia il vento e li vuole scompigliare,
esce il sole e li fa splendere.

Li fa splendere, colomba,
e come te non ce ne stanno.
Vola, ehi vola e dimmi tu le tue parole.
Se hai piacere, vengo qui un’altra sera;
se piacere non c’è, io andrò via di qua.»

Testo in cui il dialetto dà altra prova di sé, ad esempio con la scelta dei termini “sbalià”, per ‘scompigliare’, riferito ai capelli mossi dal vento, e “sderlucì”, l’equivalente molto poetico e insolito di ‘splendere’, effetto dei capelli sotto la luce del sole, oltre che con il ricorso all’analogia donna/palomma, all’ enjambement (alterazione fra l'unità del verso e l'unità sintattica; ndr) [ji te vède / a ‘sti capìlli chi], alla personificazione [i capelli consolano].

Testo che consente di entrare in un contesto culturale ormai diverso dal nostro, dove il contatto uomo/donna era mediato dalla serenata. Testo attraverso il quale è possibile, infine, imparare meglio l’italiano, riflettendo ad esempio sull’uso dei pronomi personali [ji te vède / ci avìti ndèsta], tipico dell’espressione dialettale, non tollerato dalle norme dell’italiano.

Leonarda Crisetti




  fuoriporta.info

 

Dimensione carattere normale  Ingrandisci dimensione carattere  Ingrandisci dimensione carattere

Segnala

 

 
 

  Commenti dei Lettori:

-- 23/10/2011 -- 18:59:19 -- il direttore editoriale

Tramite Teresa M. Rauzino riceviamo il commento di Francesco Granatiero all’articolo di Dina Crisetti. “Avrei voluto essere presente al convegno senza dubbio importante, almeno per alcune presenze, soprattutto Loi, con il suo “Educare la Parola”. Non posso che condividere l'assunto di Matteo Armistizio Melillo secondo cui i dialetti non si possono “insegnare” ma vanno “studiati”. In quanto alla constatazione che i dialetti siano materia molto, per così dire, fluida, questa è una verità che, anche se in minor misura, riguarda anche le lingue: che la grammatica (cioè insieme di norme) dialettale sia una pura follia è evidentemente un'affermazione provocatoria. Si pensi che il padre dello studioso, cioè Michele Melillo, ha speso gran parte della sua vita a scrivere in svariati volumi la grammatica dei dialetti dell'intera Puglia! (CONT.)

-- 23/10/2011 -- 19:00:19 -- il direttore editoriale

Quello che bisogna cogliere da queste parole è che la grammatica, la lingua è sempre dettata dall'uso: i migliori maestri sono quelli che la parlano. E che l'errore non è mai un errore, ma una deviazione dalla norma e una spinta al rinnovamento... (Francesco Granatiero). (FINE)

-- 31/10/2011 -- 07:41:57 -- Paolo

“Parlare di grammatica dialettale", afferma Melillo, sarebbe “pura follia”. E perché mai? Chi parla costruisce istintivamente una grammatica (certo non segue regole grammaticali precostituite). E' stata pubblicata recentemente ‘A Ġrammàtëka Pëskëciànë: opera di folli, professor Melillo?

-- 31/10/2011 -- 07:49:47 -- Paolo

ho posto una domanda (retorica) direttamente al professor Melillo, di cui è riportata una sentenza tra virgolette. La domanda, professoressa Crisetti, è estesa naturalmente a tutto il consesso di intelletuali che partecipano al dibattito

 
Dx
 

ACCESSO AREA UTENTI

 

 Username

Password

 

Area Privata

Logout >>

 

     IL SONDAGGIO

 
 

VIDEO DELLA SETTIMANA

ESTATE E SANITA

 

STATISTICHE .....

Utenti on line: 5593

 
 
Inferiore

powered by Elia Tavaglione

Copyright © 2008 new PUNTO DI STELLA Registrazione Tribunale n. 137 del 27/11/2008.

Tutti i diritti riservati.