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07/04/2011

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PELLEGRINO DALLA CITTÀ AL DESERTO

Clicca per Ingrandire Quest’anno non siamo partiti. Gli altri anni, invece, la quaresima era sempre per noi un pellegrinaggio dei giovani fino al deserto. Vivere l’incontro con l’altro, con il suo mondo e la sua fede differente, ma anche l’incontro con se stessi e la propria identità più profonda. Lo chiamavamo “pellegrinaggio dalla città al deserto”: da una città stupenda, Marrakech, fino a un autentico deserto come il Sahara. Un lunghissimo percorso a piedi, in bus o su un cammello, accompagnati invisibilmente da Abramo, Mosè, dai discepoli di Emmaus. Ogni giorno un personaggio biblico differente si metteva in cammino con noi per insegnarci a trasformare il cuore e lo sguardo. Il filo rosso era l’ascolto: un difficile e fecondo cammino di apertura all’altro e di accoglienza del suo mondo differente.

Atterravamo in una città viva e accogliente nel cuore del Marocco: Marrakech. Ci trovavamo immersi nel mondo musulmano. Profumi esotici, souk e mercati popolari, tè alla menta, volti con il turbante e quell’originale sinfonia di appelli alla preghiera che saliva spesso da tutte le moschee della città. Per noi era iniziare a mettersi in ascolto di un altro mondo con tutti i nostri sensi. “Per me è un vero cammino di san Francesco!” diceva Daniele. Era vero, non tanto per la fatica dei piedi, ma per lo spogliarsi di ogni cosa e alla fine, attraverso villaggi, oasi e vallate, trovarsi in pieno deserto. Restavamo sospesi tra il cielo e un mare di sabbia in un misterioso tu per tu con Dio. Incontri essenziali. Come lo era il sapore del pane cotto sotto la sabbia. Croccante, fragrantissimo. Erano lezioni stupende, indimenticabili. Lezioni di ascolto e di conversione all’essenzialità e all’empatia con l’altro.

Ci accompagnava sempre una bella raccomandazione di Proust: “Un vero viaggio di scoperta non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi.” Lungo il percorso ci accoglievano piccole comunità cristiane. Ci mostravano in terra d’Islam il volto di una Chiesa fragile, umile, vigile nella preghiera, sollecita nella solidarietà con un popolo di religione musulmana e di cultura arabo-berbera. Per noi erano anche una guida per entrare in una società e in una fede tanto differente. “Sai, molti qui hanno una fede che trasporta le montagne!” confessava serenamente suor Monica, in Marocco ormai da quarant’anni, parlando dei vicini musulmani. In un atelier di tappeti con altre suore francescane lavorava insieme a una cooperativa di donne musulmane. Ma erano loro stesse a fare il vero lavoro di tessitura. Attraverso la loro complicità e apertura reciproca intrecciavano le loro vite di donne dalla cultura, sensibilità e religione differenti. Miracolo quotidiano. Un proverbio arabo dice: “La bellezza di un tappeto viene dalla varietà dei suoi colori.”

Indimenticabile e superbo il couscous che trovavamo sempre sulle tavole di queste comunità, come segno di un’accoglienza fraterna. Ci sorprendeva anche la loro preghiera: una forza interiore che sostiene e aiuta a resistere in prima linea, quali discepoli del Signore nella terra del Profeta. Li contemplavamo immersi nel silenzio. Immobili sulla stuoia per lunghissimi momenti: sembrava dicessero all’unisono con questo popolo che amano: “Solo Dio è grande!” Sì, solo Dio è grande e chi lo sa incontrare. Tutto, però, faceva pensare alle parole di Giovanni Paolo II ai giovani musulmani a Casablanca: “Voi siete testimoni della grandezza di Dio, noi, invece, siamo testimoni di un Dio che è amore!” Così, non si è in terra d’Islam per convertire, ma semplicemente per amare. Osservavamo con emozione nella comunità monastica trappista di Midelt il testamento spirituale scritto con le sue stesse mani da Christian, il priore di Tiberhine e quella forza inaudita di perdono per chi l’avrebbe ucciso che ha stupito il mondo. Questi pochi monaci avanzano sereni, anche se sulle loro spalle portano sempre sette fratelli martiri. Notte e giorno. Veri “uomini di Dio”.

Oppure era essere accolti dalla comunità francescana di Meknès, originale, accogliente e giovane, in un’antica casa di rabbini in pieno quartiere popolare musulmano. Era diventata un bel centro linguistico. Vi si insegnano gratuitamente sei lingue straniere a centinaia di giovani musulmani. Una straordinaria finestra aperta sul mondo e sui valori di altre culture. Una grande lezione di fratellanza in terra d’Islam del figlio più bello di Assisi. Oppure era fermarsi dalle Piccole sorelle che accompagnano i nomadi, anch’esse sotto una tenda. E leggere in un semplice pezzo di carta appeso a un tappeto con uno spillo il loro segreto di vita. “Evangelizzare qualcuno è dirgli: anche tu sei amato da Dio. E non solo dirglielo, ma pensarlo realmente. E non solo, ma far sì che nel modo di comportarti con lui, senta che c’è in lui qualcosa di più grande e di più nobile di quello che credeva e risvegliarlo a una nuova coscienza di sé.” Per nomadi dalla vita raminga, una scoperta semplicemente favolosa!

Ma i ricordi più forti sono quelli stampati dal deserto. La luna era luminosissima in quelle notti nere. Camminava lentamente su e giù per il cielo fino a toccare il filo dell’orizzonte e così pure le stelle, enormi, che verso mattino si spegnevano, mentre appariva soffice una luminosità sempre più viva, incantevole, prima del sorgere del sole. In un silenzio che impressionava, l’armonia della natura preparava la nascita più sorprendente della vita: il giorno. Come milioni e milioni di anni fa, contemplavamo con i nostri stessi occhi una liturgia celeste e grandiosa. Eri come solo al mondo e non ti pareva vero! Arrivavamo poi alle dune di Merzouga, le più belle di tutto il Sahara. Bellezza impressionante: dolcissime curve, alte duecento metri, si spiegano per chilometri come vele al vento, dal quale si lasciano sfiorare, accarezzare, cesellare, ricamare… con una leggerezza e una disponibilità incredibili. Rivedo i giovani ancora correre come caprioli, a piedi nudi, su e giù su queste montagne di sabbia finissima con il pericolo di perdersi, tanto facile qui, al calare improvviso della notte. O chiedere a un ragazzo berbero dov’era nato, e stupiti sentirsi rispondere: “Alla quarta duna.”

O si celebrava l’eucaristia sulla duna più alta: una messa sul mondo! Come dimenticare quando al momento del perdono posavamo l’orecchio su questa sabbia rossastra, in pieno Sahara, per auscultare la terra, come il ventre di una donna. Era per provare a sentire il pianto di milioni di uomini, donne e bambini. Di esistenze infelici sulla terra. Vite inumane, impossibili, sradicate dagli eventi. Forse migranti. Per chiedere perdono a Dio di avere un cuore inconsapevole e insensibile alle tragedie del mondo. Al momento della pace era vedere questi giovani affondare le mani e le braccia il più possibile nella sabbia nel tentativo, in mezzo al deserto, di dare la mano a tutti gli uomini della terra, per esprimere le lunghe solidarietà che avrebbero voluto far nascere. Penso con commozione a questi tanti giovani che il deserto ha consolidato o trasformato nei loro aspetti più sani e belli. Alcuni sono ritornati in Africa per un periodo di volontariato, altri, per lo stesso motivo in Brasile, a Salvador de Bahìa, altri ancora… Una lezione magnifica del deserto, che in loro ha saputo fiorire e dare frutto.

No, non siamo partiti quest’anno. Ma, ve l’assicuro, tutti i giovani in questa quaresima con il loro cuore sono già laggiù. Elhamdullilah! (Lode a Dio!)

Renato Zilio

 Redazione

 

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