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10/02/2011

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RICORDARE PER CAPIRE

Clicca per Ingrandire Almeno diecimila persone, negli anni drammatici a cavallo del 1945, sono state torturate e uccise a Trieste e nell'Istria controllata dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito. In gran parte vennero gettate (molte ancora vive) dentro le voragini naturali disseminate sull'altipiano del Carso: le Foibe. “A oltre sessant'anni di distanza - dicono alla Lega Nazionale che lavora alla difesa dell'italianità di Trieste e Venezia Giulia - vogliamo far conoscere questa tragedia italiana a chi non ne ha mai sentito parlare, a chi sui libri di scuola non ha trovato il capitolo Foibe, a chi non ha mai avuto risposte alla domanda: cosa sono le foibe?”

“Vogliamo ricordare a chi già conosce la storia delle foibe, ai figli e ai nipoti di chi dalle terre d'Istria e Dalmazia è dovuto fuggire, cacciato dalla furia slavo-comunista. Vogliamo anche capire perché, a guerra ormai finita, migliaia di persone hanno perso la vita per mano di partigiani comunisti e perché, per sessant'anni, la storia d'Italia è stata parzialmente cancellata”.

A Trieste, a differenza delle altre città italiane, la liberazione alla fine della seconda guerra mondiale coincise con l'inizio di un incubo: per quaranta giorni le truppe partigiane e comuniste del maresciallo Tito imperversarono a Trieste torturando, uccidendo e deportando migliaia di cittadini innocenti, o talvolta colpevoli solo di essere italiani o anticomunisti. Anche questa, come quella delle Foibe, è una pagina dimenticata nella storia d'Italia. E' una pagina spesso dimenticata anche a Trieste: da chi l’ha vissuta per il desiderio di cancellare il ricordo di un incubo. E da chi, più giovane, non ha potuto sentirne parlare fino in fondo.

Vogliamo raccontare, ricordare, capire. E quale contributo riportiamo la Testimonianza della signora Annamaria Muiesan rilasciata nella “Giornata del Ricordo” (10 febbraio 2006) al triestino Politeama Rossetti. “La Patria comincia a prendere coscienza di una realtà che per oltre sessant’anni è stata dimenticata, stravolta o silenziata. Manca ancora uno sforzo condiviso per stabilire le responsabilità di quel dramma dovuto certo alla ferocia dei titini jugoslavi, ma nel quale i comunisti italiani locali hanno svolto una parte non marginale.

“Oggi, in occasione della Giornata del Ricordo ci viene chiesta una testimonianza per non dimenticare. Vivessi cent’anni non potrei mai liberarmi da quei ricordi dolorosi. Sto ancora male al ricordo della notte del sequestro di mio padre, delle accuse tremende che gli gridano in faccia i gappisti (aderenti ai Gap, Gruppi d'Azione Patriottica; ndr), piranesi, fazzoletto rosso e mitra spianato. Sto male al ricordo del breve ritorno con mia madre a Pirano nell’inutile tentativo d’incontrarlo, dei manifesti infamanti affissi per le strade, delle parole del parroco Don Malusà: “No signora xe mejo che no la lo veda”, a sottolineare, lui che i prigionieri li può visitare, Dio sa quali conseguenze per i maltrattamenti subiti.

“Sto male al pensiero del fabbro che forza la porta del nostro appartamento, a Pirano; degli uomini armati che profanano quelle amate stanze, quelle amate vecchie cose razziate e caricate su un carro già in attesa in contrada. Sto male al ricordo delle lunghe notti insonni di Trieste nell’alloggio di via Guido Reni devastato dalle bombe nelle brande fradice dell’Eca (ente comunale assistenza; ndr), della pioggia che gocciola nei barattoli sistemati qua e là.

“Sto male al pensiero di mamma che incurante del pericolo testardamente percorre con altre la sterminata Jugoslavia nella speranza, nascosta nell’erba alta o fra le stoppie, di riconoscere tra i tanti volti emaciati e barbuti dei prigionieri dei campi, quello del suo caro: 44 furono i cittadini di Pirano e dintorni fatti scomparire dalla faccia della terra. La maggior parte fra il maggio e il giugno ’45. e questo quando a Pirano comandavano non i titini, come ancora oggi si vorrebbe far credere, ma i comunisti del posto che alla fine delle ostilità s’erano insediati al Comune e s’imponevano sul Cln (Comitato liberazione nazionale; ndr).

“E comunisti italiani erano i gappisti che non avevano riconsegnato le armi per continuare la loro rivoluzione, mandati di notte di casa in casa a sequestrare i ‘nemici del popolo’. Comunisti italiani quelli che dileggiavano i prigionieri in piazza, quelli che sorvegliavano le carceri, quelli che sovrintendevano agli interrogatori, finché finirono nelle mani dei titini che ne fecero scempio.

“Di mio padre, dunque, quasi tutto si sa sul sequestro, sulla prigionia, sulle sevizie, sui dileggi diurni e sugli interrogatori notturni, e sono anche noti i nomi degli aguzzini. Ma a quasi sessantun anni da quei dolorosi eventi, sul come e dove egli abbia immolato la sua vita, nonostante le tante ipotesi e congetture sollevate, ancora nulla si sa di preciso. Ed è d’altra parte inutile che in tanti si affannino a correre a Lubiana a spulciare negli archivi aperti da poco: tutti sanno che negli archivi si trova quello che si vuol far trovare.

“Mio padre dunque resterà per sempre senza sepolcro. E senza un fiore.

“Esiste una sola, unica e incontrovertibile certezza: se nei nostri paesi non ci fossero stati quei piccoli comunisti italiani assetati di potere e animati di odio ideologico e spirito di vendetta, e non avessero messo in atto una caccia spietata ai loro nemici storici, indifferente se buoni o cattivi, oggi noi tutti piangeremmo un numero assai meno elevato di scomparsi. Ed è questo che nella Giornata del Ricordo si deve dire a chi ancora non sa.”


LA SCHEDA = Alla fine delle ostilità belliche, nel 1945, i partigiani di Tito invasero i territori italiani della Dalmazia, dell’Istria e della Venezia Giulia, trucidando intere famiglie di italiani o nel più favorevole dei casi costringendole all’esilio (fra loro anche il mai troppo compianto artista di Rovigno d’Istria e cittadino peschiciano onorario, Romano Conversano; ndr). La tecnica per l’uccisione era quella dell’infoibamento che consisteva nel disporre incatenati i prigionieri, considerati tutti fascisti, in fila per due legati con un filo di ferro. I primi, in ordine di fila, venivano fucilati sul bordo delle doline carsiche istriane (passate alla storia col nome tristemente famoso di “foibe”) mentre gli altri cadevano giù nelle foibe trascinati dal filo di ferro che teneva gli sfortunati prigionieri legati fra loro.


 Redazione + Lega Nazionale di Trieste

 

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