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18/01/2011

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TRICOLORE E INNO: IL COLLANTE DEGLI ITALIANI

Clicca per Ingrandire Ci mancava pure questo nel nostro Bel Paese! Dopo un secolo e mezzo di monarchia e di repubblica, c’è chi si è accorto all’improvviso che dei vari modelli istituzionali prospettati e discussi nell’800 tra il monarchico Cavour, il repubblicano Mazzini, il neoguelfo Gioberti e il federalista Cattaneo, proprio il federalismo (fiscale, demaniale, municipale, regionale, ecc.) avrebbe comunque potuto calzare a pennello alla variegata e poliedrica realtà italiana. Capita inoltre di ascoltare da tanti sputasentenze giudizi strani e paradossali, come quello secondo cui l’Italia sarebbe ancor più unita se fosse uno Stato federale.

Ciò premesso, non è tuttavia facile comprendere le vere ragioni che da un bel po’ inducono faziosi o fanatici della Lega Nord a bofonchiare in ogni occasione, e sino alla noia, unicamente per denigrare, insieme col tricolore, l’Unità d’Italia al suo 150° anniversario. Non solo! Persino l’Inno nazionale è oggi oggetto di puntigliosa critica pretestuosa, animata dalla pretesa di volerlo sostituire col coro “Va’, pensiero” del Nabucco verdiano (datato 1842).

È pur vero che ai tempi di Giuseppe Verdi l’antico dramma degli Ebrei esiliati in Babilonia fu interpretato come chiara allusione alla triste condizione del Lombardo-Veneto sotto dominazione asburgica. Se poté sembrare allora una valida giustificazione, di certo dettata da sentimentalismo patriottico del tempo, ciò non toglie che non contiene alcun riscontro logico con l'Italia, il suo popolo, la sua storia di ieri e di oggi. Il coro in questione, intonato dagli Ebrei deportati in terra straniera, è solo il canto di un popolo storicamente estraneo alla nostra cultura e alla nostra civiltà, un popolo sconfitto 2600 anni fa dal re babilonese Nabuccodonosor e trattenuto in cattività lontano dalla terra promessa.

Non si sa di cosa possano lamentarsi le popolazioni dell’Italia settentrionale dopo tanti anni di unificazione nazionale, ideologicamente vissuta peraltro in una pacifica identità etnica, politica e sociale, non già sotto tirannide o in esilio. Dall’Unità, tacitamente sponsorizzata dal Piemonte (grazie alla strategia diplomatica di Cavour), condivisa dalla Lombardia (per mero opportunismo economico) e favorita dal Veneto (per calcoli politici relativi alle terre irredente sul confine slavo), il Nord non è mai stato succube di nessuno né tanto meno del Sud.

Per la verità storica è stato proprio il Sud a subire la storia, la politica e l’economia, accettando persino la bandiera tricolore nata a Reggio Emilia quale emblema della Repubblica Cisalpina (1797), così come l’inno nazionale concepito nel 1847 da due genovesi: l’autore del testo, Goffredo Mameli, eroe mazziniano caduto combattendo a 22 anni per le sue idee risorgimentali a difesa della giovane Repubblica romana, e il compositore dello spartito musicale, Michele Novaro.

C’è chi critica le parole troppo retoriche e ampollose usate da Mameli. Ma anche gli altri testi stranieri non sono meno intrisi di arcaismi, giusto perché un inno nazionale deve essere necessariamente e anzitutto patriottico fino a radicarsi nella storia di un popolo. Si pensi alle varie citazioni storiche utilizzate nel nostro inno a partire dall’epopea dell’antica Roma, signora del Mediterraneo (con Scipione eroe d’Africa), sino alla rivolta dei Vespri siciliani contro gli Angioini. Gli stessi versi “Dall’Alpe alla Sicilia / dovunque è Legnano”, presenti in una strofa meno nota, tradiscono finalità patriottiche tali da uniformare ogni riferimento di una storia millenaria: come fu nel medioevo, così ogni città italiana deve essere “Legnano”, là dove nel 1176 la Lega lombarda sconfisse l’imperatore tedesco Federico Barbarossa.

Il Mezzogiorno, in sostanza, senza esserne parte attiva o propositiva, ha patito persino il processo unitario concluso con l’annessione al Regno sabaudo. Si è trattato di un’operazione estranea al Sud, se è vero che è stata imposta nonostante l’ostilità dei governi pontificio e borbonico, che determinò in parte l’indifferenza o la diffidenza delle popolazioni meridionali. L’impresa quasi leggendaria ma eroica dei Mille, guidati da Garibaldi, salpò da Quarto in Liguria. E, se oltre 400 erano cittadini della ultrapadana Bergamo, la maggior parte provenivano, non per caso, da regioni centro-settentrionali!

Pertanto ci si chiede quanto possa essere plausibile l’idea peregrina di promuovere ed elevare il testo verdiano al rango di inno nazionale, così come strumentalmente e provocatoriamente proposto con stravagante ossessione, e senza giustificazioni storiche, dalla Lega Nord. Alla base del problema esiste un errore o un equivoco (non si sa quanto studiato oppure improvvisato) e comunque, se non un miserevole plagio, addirittura un’ingenua suggestione popolare fondata su una macroscopica ignoranza generale dell’argomento, sfruttata poi volutamente ad effetto, specificamente per interessi territoriali di una precisa strategia politico-elettorale.

Il “Va’, pensiero” del “Nabucco” probabilmente i leghisti non lo hanno compreso né interpretato alla lettera oppure fingono di esserne innamorati, al di là dell’appassionata tematica e della melodiosa musicalità unanimemente riconosciute. Nel pretendere di adattarlo forzatamente a improvvide finalità di parte, s’intende unicamente alzare il prezzo politico al fine di perseguire in realtà un ambizioso e irresponsabile programma localistico di comodo, completamente avulso tuttavia dal contesto ebraico. In effetti il coro è ispirato a un testo biblico, ossia al Salmo 137 (Canto dell’esiliato):

“Sui fiumi di Babilonia,
là sedevamo piangendo
al ricordo di Sion.
Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre.
Là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
canzoni di gioia, i nostri oppressori:
"Cantateci i canti di Sion!".
Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?”

A livello storico-letterario è indubbiamente il più famoso dei salmi. Nei versi c’è una tale forza lirica che ha incantato e ispirato poeti e musicisti di ogni tempo. Il tema è notoriamente collocato nella lontana Mesopotamia e l’attore protagonista è il popolo ebreo prigioniero in esilio oltre che condannato a sopravvivere alla nostalgia, come meglio si evince dalla parafrasi:

“Va’, pensiero, sulle tue ali d'oro, va’, posati sui pendii, sui colli, dove profuma deliziosa l'aria della nostra terra natìa. Lascia le rive del Giordano, lascia le torri distrutte di Gerusalemme… Oh, mia Patria, così bella e lontana! Oh, ricordo così caro e doloroso!
O Musa ispiratrice dei presaghi poeti, perché muta ora ti lamenti? Riaccendi nel nostro cuore i ricordi, parlaci della nostra storia gloriosa! Ahimè! arresa come Solimano al suo destino, fa’ sentire la tua voce con un orribile lamento! Oh, che il Signore ti ispiri un nuovo canto, che ci infonda, nella sofferenza, il coraggio di riscossa!”

Dalla stessa fonte del Salmo 137 discende la lirica di Salvatore Quasimodo “Alle fronde dei salici” (da “Giorno dopo giorno”) e qui il motivo affrontato resta immutato, ancorché collocato in altra dimensione storica di tempo e spazio, là dove al centro è pure la tragedia di un popolo, l’italiano, nei durissimi anni della resistenza contro la barbarie nazifascista.

“E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.”

Questa, del poeta di Modica di Ragusa, è la rappresentazione degli orrori commessi dai nazisti sulle popolazioni inermi delle città italiane specie del centro-nord. Dove effettivamente furono commessi atroci crimini con misfatti e massacri che suscitarono panico e terrore tra i civili, ma anche il silenzio, giammai complice, di poeti e intellettuali a fronte della indiscriminata e cruenta violenza che da ambo le parti scoppiò incontrollata come è inevitabile in ogni pagina e parentesi bellica.

Oggi per fortuna la storia è mutata. Persino la politica, caduti valori e ideali, ha rivoluzionato l’agone e il teatro degli schieramenti politici, alla cui ribalta da un ventennio si è affacciata prepotente la psicosi del velleitario “revanscismo” nordista. Sappiamo che vi sono milioni di settentrionali che non votano Lega a fronte di chi, coscientemente o no ma in buona fede, comunque la gratifica col proprio suffragio. Un elettorato tuttavia di gran lunga più assennato dei capi che guidano il movimento popolare, da quasi un decennio al governo del Paese a fare da sponda e supporto al cavaliere, che altro non aspettava se non crearsi un valido scudo per sistemare il proprio cortile con annesso orticello da lusingare in una tacita complicità machiavellica. Non sono pochi però gli Italiani a essere ormai rammaricati per come si è gestita in questi ultimi vent’anni e tuttora si gestisce la cosa pubblica su scala nazionale. Si ricordi, tra l’altro, nella sua denuncia, il dramma esistenziale di Giorgio Gaber: “Mi scusi presidente, io non mi sento italiano, però per fortuna o purtroppo lo sono…”.

L’Italia, dalle Alpi allo Ionio, sin dal 1861, si riconosce per due simboli comuni a tutte le popolazioni della penisola, che, politicamente divise da secoli, sono comunque depositarie della stessa identità di storia, lingua e religione. Il tricolore e l’inno d’Italia ne sono difatti il collante. Non solo a livello istituzionale. Lo si riconosce in tutte le occasioni in cui sono interessate le nostre rappresentative nazionali di ogni competizione sportiva sino all’agone olimpico. Altro non può essere, fantasiosi surrogati non esistono né sono possibili, al di là di paradossali eccessi e stravaganze ricorrenti da condannare senza ipocrisia.

Il “tricolore nel cesso”, idea balzana di Bossi, capo carismatico indiscusso oltre che ministro leghista della Repubblica italiana (contestato a Venezia da Lucia Massarotto durante gli annuali raduni padani), l’Unità dissacrata dall’altro ministro leghista Calderoli, la scuola di Adro parossisticamente inneggiante al sole celtico delle Alpi, la nazionale di calcio gufata ai mondiali in Sud-Africa sia dal rampollo del senatùr, il neo consigliere regionale lombardo (da 12mila euro mensili!), che si gloria di non essere mai sceso più giù di Roma, sia da Radio Padania (“Ha segnato il Paraguay! ha segnato il Paraguay!...”), l’Inno di Mameli sabotato da Zaia (ex ministro leghista, oggi governatore del Veneto) e ai massimi livelli odiato e contestato!… Questi in breve gli ultimi casi più eclatanti e riprovevoli.

Tutto col complice beneplacito delle Istituzioni e delle forze alleate nel governo nazionale, responsabile, si mugugna oltre il Po, di una politica particolarmente assistenziale a favore delle popolazioni meridionali e a danno di quelle produttive del Nord industriale. Da ciò lo slogan volgarizzato “Roma ladrona!”, quasi i nordici celtici fossero integerrimi, i pilastri della Nazione per meriti impareggiabili sotto l’aspetto economico, politico e morale. Forse che Milano è l’Eden e non già la capitale di “Mani pulite”!

E intanto è sempre più diffusa la spocchiosa ma pure maldestra propaganda federalista (velatamente separatista) di uno zoccolo irriducibile di quanti, pur al governo della Nazione, minacciano per subdolo ricatto la secessione della Padania, macroscopica e ipocrita invenzione storica. Ma lo fanno dopo aver reso più ricco, più grande e competitivo il Nord grazie al lavoro, al sacrificio e talora anche allo sfruttamento socio-economico di migliaia di meridionali lassù immigrati in massa, specie nel secondo cinquantennio del secolo scorso!

Molte sono le sacche di conurbazioni costituite da siciliani e sardi, lucani e campani, calabresi e pugliesi confluiti nel triangolo industriale o presso la Fiat o altre aziende settentrionali. Un esempio notevole si trova a Monfalcone in provincia di Gorizia, nell’estremo lembo del nord-est al confine sloveno, dove da quasi un secolo si è stanziata una folta colonia di operosi gallipolini impegnati di generazione in generazione nel noto cantiere navale.

È infine paradossale che oggi si predichi solo a parole di voler correre ai ripari con l’obbligo legale di utilizzare, accanto al tricolore, l’inno di Mameli in tutte le occasioni istituzionali di Comuni, Province, Regioni. Probabilmente c’è chi ha dovuto rinfrescare le sue labili reminiscenze storiche ripassando i testi scolastici e soffermandosi in particolare su pagine smemorate: Risorgimento, Resistenza, Liberazione, Costituzione. Valori conquistati con eroismo dai nostri padri e attualmente messi in discussione per interessi di bottega.

La “questione meridionale” potrebbe essere superata, promettono i capi della Lega, nell’ambito di una Unità nazionale debitamente aggiornata, corretta, completata dal federalismo, dunque unanimemente condivisa. Resta però un dilemma insolubile e quanto meno discutibile: il problema di certo non è realistico se però manca la premessa indispensabile della solidarietà fra le Regioni, soprattutto la garanzia dello Stato a tutela della Costituzione e dei diritti inalienabili delle persone, di tutti gli Italiani, specie dei più deboli.

C’è bisogno di un bagno di umiltà rifacendoci alla storia. Sarebbe anzitutto sufficiente analizzare con obiettività a quali forze-lavoro si deve il boom economico degli anni ’60, assai tangibile e concreto a nord più che a sud grazie alla mano d’opera a buon mercato e ai risparmi delle rimesse dell’immigrazione, riciclati poi nelle banche padane a impinguare le finanze e favorire l’industrializzazione del Nord Italia. Sarebbe anzi particolarmente opportuna qualche visita preliminare al Sacrario di “Re di Puglia” sulle Prealpi Giulie onde conoscere con quali contributi di sangue è nata la Nazione Italia alla fine della cosiddetta quarta guerra d’indipendenza (’15-‘18).

Proprio lì, a fungere ancora da presidio come emblema di libertà a ridosso della frontiera orientale, riposano migliaia di contadini e braccianti meridionali. Sono i cosiddetti “terroni”, fatti soldati a combattere sul Carso e lungo il Piave per difendere una terra altrui, ma pure a sacrificare con la vita la propria giovinezza e ogni speranza di futuro lontano dalle proprie case e famiglie, abbandonate all’atavica indigenza insieme con orfani e vedove di guerra. Giusto per dare un senso al progetto di patria una, libera e indipendente, perseguito da due eccezionali figure come Mazzini e Garibaldi, che notoriamente non erano affatto dei levantini.

Solo le infauste vicissitudini della storia avevano per secoli aspramente ostacolato, impedito e persino vietato l’unificazione, costringendo la penisola italica, insieme con la Padania, a restare divisa e schiava tra vari padroni, condannando un popolo a vivere senza dignità e senza nome fino alla proclamazione di Vittorio Emanuele II di Casa Savoia a primo re d’Italia. Era il 17 marzo 1861. Forse tutti gli “Italiani” celebreranno senza vane ipocrisie o ulteriori remore il 150° Anniversario dell’Unità, ma alla sola condizione che entro il mese corrente sia varato nel Parlamento il tanto auspicato federalismo, quale che sia. Si tratta evidentemente solo di un affare politico e nulla di più!

Gino Schirosi

 Redazione

 

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