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21/12/2010

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RIEVOCARE PER RECUPERARE MESSAGGI DI AMORE

Clicca per Ingrandire Per ricostruire la cultura e le tradizioni del Natale garganico utilizzerò i ricordi dei nonni, i costumi giunti a noi e soprattutto i proverbi. Sì, i proverbi, queste forme di comunicazione orale che hanno origine molto antica e attraversano tutte le civiltà, per il fatto che costituiscono a mio avviso la chiave utile per entrare nel contesto e conoscere gli usi e i costumi giunti fino a noi.

Proverbi e modi di dire, usanze e credenze, comportamenti che - come risulta da un’indagine svolta coi liceali di Cagnano Varano nel dicembre 2007 e come avrete modo di scoprire anche voi - attraversano il Gargano. Vedremo, infatti, che le tradizioni natalizie sono pressoché identiche, sia nello scandire i modi e i tempi della “attesa”, sia sotto l’aspetto culinario.

La domanda è: “Perché i paesi garganici coltivano le medesime tradizioni? Il motivo di questa identità culturale garganica - che tuttavia sottende anche alcune differenze riconducibili ai contesti – dipende, a mio avviso, dal fatto che tutti i paesi del promontorio hanno vissuto grosso modo gli stessi eventi e difficoltà, ma soprattutto dal fatto che tutti hanno avuto per lungo tempo come maestra unica e incontrastata la Chiesa, la quale nell’educare si è ispirata al modello della Bibbia. Per tutti basti l’esempio del detto che recita: “Mazze e panelle fanne li figghje bbèlle”.

Il modellamento dei costumi operato dalla Chiesa è stato agevolato dalla presenza dei santuari di San Michele Arcangelo che sin dal V° secolo hanno attratto le folle, spinte dal bisogno di soddisfare l’esigenza di sacro. Modellamento rinforzato dai monasteri (in particolare dell’ordine dei Benedettini) che hanno insegnato le forme di organizzazione del lavoro agricolo, dell’attività sociale e culturale.

La Chiesa, insomma, ha così veicolato norme religiose, etiche, giuridiche e sociali ricorrendo anche ai detti popolari e agli aforismi nati dalle osservazioni e riflessioni individuali di fronte ai grandi interrogativi posti dall’esistenza, operando nella convinzione che ci fosse un ordine naturale e segreto che orientasse la natura, un fine che imprimesse una direzione alle vicende umane. La Chiesa, in definitiva, ha educato il popolo garganico socializzando norme e comportamenti a partire dalla prima infanzia, facendole passare di bocca in bocca anche tramite i proverbi, che hanno scandito il ciclo della vita, i tempi del lavoro, del riposo e delle feste religiose, proverbi che hanno fissato modelli di comportamento.

Nel tempo in cui la famiglia era di tipo allargato, spettava alla nonna il compito di rinfrescare la memoria, alimentando soprattutto nei bimbi le aspettative per il Natale, la festa più importante dell’anno, che andava trascorsa in famiglia, così come prescriveva il detto: “A Natale a ccasa tua e l’àveti fèste addova te truve”. Poco importava se gli appartamenti non erano grandi come quelli di oggi, obbedendo al detto “loche stritte, fìcchete mmèzze”.

Il conto alla rovescia iniziava il 25 novembre, giorno di Santa Caterina, ricordando che mancavano 30 giorni a Natale: “A Sanda Caterina jè Natale a la trendina”. Proseguiva il sei dicembre, giorno di “Sande Nicola a Natale diciannove”; quindi l’8 dicembre giorno di “Sanda Cungètta a Natale diciassette”, per arrestarsi il 13, giorno di Santa Lucia “ a Natale dudecina”.

La ricorrenza del 13 dicembre era molto sentita, sottolineata dai proverbi di Cagnano, Carpino, San Nicandro e altri paesi garganici, che assegnavano ai giorni che vanno dal 14 al 25 la funzione di calende: dal 14 dicembre, infatti, al 25 cadono 12 giorni, quanti sono i mesi dell’anno. Se il 14 avesse piovuto, gennaio sarebbe stato piovoso, se il 15 avesse nevicato, febbraio sarebbe stato nevoso, se il 16 avesse tirato vento, marzo sarebbe stato ventoso, e così via. “Sanda Lucia - in definitiva - cconde la statia”, prevedendo come sarebbe stata l’estate. Quanto fossero attendibili tali previsioni non saprei dire.

Via via che si avvicinava il giorno di Natale, la gioia dei bambini cresceva perché si respirava un’atmosfera più calda, perché in casa si aveva un po’ di “grascia” (abbondanza), perché si usciva dalla miserevole routine quotidiana. I piccoli “quatrarèdde” (così si chiamavano i bambini nel dialetto di Monte Sant’Angelo) nel periodo natalizio erano felici anche perché finalmente avevano la sensazione di essere al centro dell’attenzione, allorché le loro mamme giusto per loro, insieme a “pèttele”, “pizzarèdde”, “pizze fritte”, “crustele” e “scartellate”, facevano “li nennarièdde” (pupazzetti di pizza fritta).

Dolci che attraversano il Gargano con qualche variante a livello di condimento e denominazione (facendo regnare anche un po’ di confusione). “Lu strùffele” di Carpino, Ischitella, San Nicandro, a esempio, noto a Cagnano come “crustele”, non era farcito o bagnato nel miele, ma più grande e semplicemente fritto. I “crùstele” di Sannicandro, Ischitella, Vico del Gargano, d’altro canto, corrispondono a “li scartellate” di Cagnano e Carpino. Non manca in merito qualche battuta. “A Cagnène fanne i strùffele accuscì piccula!” (stringendo pollice e indice della mano) ironizzavano i sannicandresi”, ignari del fatto che i loro “crustele” erano le nostre “scartellate”. Da che sia stata generata questa confusione non è dato sapere.

In sostanza “pèttele”, “nèvele”, “pizzarèdde”, “pizze fritte”, ricavati dall’impasto di farina, acqua, sale e lievito di pane, sono sinonimi, come lo sono “strùffele” e “crùstele”, di forma sferica, frutto dell’impasto di acqua, farina, uova, zucchero e lievito per dolci. “Li crustela” e/o “scartellate” sono invece una sorta di ciambella a forma di girandola conditi con miele d’api o di fico e con mandorle o noci. Il dolce più trasversale e forse tra i più antichi pare sia quello conosciuto a Cagnano “cavezungèdde”, a Ischitella “cavciungidde”, a Carpino “cauciungidde”, a San Nicandro e a San Marco in Lamis “cauciune”. Era ripieno con passato di ceci, miele e cannella.

A San Nicandro, inoltre, trovo anche “li fave a crèdete”, una specie di “cecatelle”, ricavati dall’impasto di farina, acqua e sale, passati nella frittura. Altra variante è costituita da “li mènele atterrate” e dalle “chiacchiere”, in alcuni paesi afferenti alla tradizione del Natale. Dolci che hanno la caratteristica di essere fritti e secondo Saverio La Sorsa sottendono un significato simbolico. A esempio, le cartellate stanno a significare le lenzuola del Bambino Gesù e i calzoncelli la sua culla.

Natale, a giudicare dai ricordi dei nonni - come dalle risposte dei giovani - è la festa più bella dell’anno, quella che raccoglie ancora gran parte delle famiglie intorno al “focolare”: i nonni impegnati a rompere noci o tenere buoni i più piccoli con qualche “conta”, le donne sposate con le mani impastate di farina per dolci e pane casereccio. Il camino doveva rimanere acceso tutta la notte. Bisognava perciò scegliere un ceppo molto grande (“u ceppone”), le cui ceneri andavano poi sparse nei campi, per buon auspicio.

Natale era una festa che favoriva condivisione e coesione sociale, ricorrendo anche al dono. Vi partecipavano, perciò, proprio tutti. La sera che precedeva la vigilia per le vie del paese si assisteva a un andirivieni di ragazzini con fagottini in mano: dentro bianchi tovaglioli tessuti a mano, sfrangiati e ricamati punto a croce, nascondevano i regali destinati a zii, nonni, vicini e compari. In genere le famiglie donavano ciò che avevano: i pescatori scambiavano il pescato coi formaggi e carni dei pastori, le patate e i farinacei dei contadini.

Era allora molto più presente di oggi il vicinato, il quale si faceva carico delle difficoltà del dirimpettaio e se questi era a lutto era tenuto a fargli pervenire un vassoio di dolci. L’elemosina e la carità promosse dalla Chiesa durante le omelie erano considerate un dovere sociale, esercitato soprattutto dai cittadini più facoltosi. Anche il Comune, elargiva qualche sussidio ai poveri in prossimità del Natale. Il dono era perciò un mezzo utile per consolidare le amicizie e riaffermare i ruoli sociali.

Approssimandosi la vigilia bisognava pensare anche alle “marotte” (speciali cassette di legno; ndr), perché il proverbio diceva: “Natale jè rruate, la marotta amma grapì e li gnidde anna scì”. Sulle anguille va aperta una parentesi dato che questo prodotto pescato nelle lagune di Varano e di Lesina era alla base del piatto della vigilia, sia dei paesi che si affacciavano sul mare, sia di quelli situati nell’entroterra.

Anguille molto richieste sin dall’epoca dei Benedettini. Le piccole o medie (“marèteche” e “pandanine”) erano preparate con la verdura (“li sinepe pe li gnidde”), le grosse (“capetone” e “capemazze”), dopo essere state incise lungo il dorso, ripulite, asciugate, salate e aromatizzate con semi di finocchio, erano arrostite sui carboni ardenti (“li gnidde spaccate”).

Per soddisfare le esigenze di questo ampio mercato, i pescatori di Cagnano sin dal mese di settembre riponevano le anguille pescate in apposite casse di legno dette “marotte”, adagiate nell’acqua in genere vicino alle sorgenti e sigillate col piombo in modo che nessuno rubasse le anguille. Custodite a turno dai pescatori, erano infine vendute nei giorni che precedevano il Natale.

La “Pèsa di Bagno” di Varano era in passato gremita dai compratori qui giunti per fare la provvista di anguille. C’erano comunque anche i commercianti di pesce - “li viatecare” - che rifornivano i mercati dei vari paesi del Gargano, di Capitanata e del Regno (di Napoli prima, d’Italia dopo). Per tutto questo i pescatori si sentivano ricchi a Natale.

Ecco un altro proverbio utile a ricordare che a Natale e a Capodanno si mangiava carne di maiale. “Lu séje jè Sande Necola, lu tridece Sanda Lucija, lu vendecinghe lu Redendόre, accedime lu pòrce senz’avè delόr”. A dicembre era dunque costume ammazzare il maiale allevato in casa durante l’anno, per avere un po’ di “grascia” con poca spesa, perché questo animale si era sostenuto da sé ripulendo il selciato. Del maiale si utilizzava ogni sua parte: persino le orecchie e i piedi, le setole e il sangue.

Un altro proverbio ci consente di entrare nel mondo degli artigiani, né poveri, né ricchi, che però a Natale avevano l’opportunità di arrotondare le entrate con qualche prestazione in più. Il detto recita perciò:“Lu scarpare tticche- tticche / ne gn-è ppòvere, ne gn-è rricche / jè rreccute lu scarpare / nda li jurne de Natale”.

I ricordi di nonni e nonne parlano della gioia dei ragazzi e delle ragazze che alle feste dovevano “ngegnà” il vestito nuovo, più spesso rimediato, riadattando quello della sorella o del fratello più grande, magari accorciando le maniche o l’orlo. Nei ricordi della tradizione campeggia la figura femminile che, quantunque subordinata a quella maschile per il fatto che era il maschio a portare i soldi a casa, ordiva le trame delle feste natalizie.

Era infatti lei a sbrigare le faccende domestiche; lei che faceva il pane, la pasta e i dolci caserecci; sempre lei impegnata a torcere il collo a qualche bestiola, a pulire pesce, a spennare folaghe, a preparare i pranzi della festa, ad allestire il presepe e l’albero di natale, sia pure con l’aiuto dei piccoli. Ancora lei sempre in piedi e pronta a servire a tavola durante i lunghi pranzi. Sempre lei a farsi carico dei problemi del vicinato. La donna era inoltre il referente più importante della Chiesa, dato che i sacerdoti facevano presa su di lei perché si facesse mediatrice degli insegnamenti da impartire a sua volta ai propri figli. In definitiva tutte le faccende della casa e quelle concernenti l’educazione erano declinate al femminile.

Natale era in sostanza una festa tanto attesa perché finalmente si poteva mangiare a sazietà. La grande abbuffata si faceva a Natale e Capodanno, consumando un lungo e abbondante pranzo: ragù di maiale, capponi, folaghe (nei paesi delle lagune), brodo di maiale o volatili, seguito da arrosto, formaggi, frutta secca e fresca, dolci. Tra un boccone e l’altro si brindava con un buon bicchiere di “vine paesane”, si eseguivano canti e balli.

Trovava pertanto legittimazione il detto che recita: “Natale pel u musse unde e ddope natale facime li cunde”, per il fatto che finalmente si potevano mangiare a sazietà cibi succulenti. Dopotutto “Natale vè na vota l’anne” (cade una volta l’anno), ed è pertanto consentito strafare nel mangiare, facendo acquisti anche “a ccredenza” (a debito; ndr).

L’abbondanza però durava solo due settimane, come recita il proverbio che dice: “Prima de Natale né fridde, né ffame / doppe Natale fridde e ffame”. Il freddo che ritorna nel distico va inteso sia in senso concreto, dato che a gennaio sopraggiungevano i rigori invernali, sia metaforico, perché strettamente connesso con la povertà. Dopo Natale, infatti, consumata anche l’ultima cotica di lardo, esaurita la pesca, non potendo eseguire i lavori stagionali in campagna, avendo contratto i debiti, il freddo e la miseria tornavano a bussare alla porta più forte di prima.

Questo indugiare sul cibo potrebbe indurre a pensare che il Natale fosse tanto atteso per soddisfare solo i “bisogni di pancia”, ma non è proprio così, giacché Natale è una festa religiosa, volta a rinnovare il patto di fede tra Dio e l’uomo, il sacrificio del Figlio di Dio mandato sulla Terra per ricondurre l’umanità lungo i sentieri della salvezza eterna. Natale è per la Chiesa - quindi anche per la comunità dei fedeli - festa d’amore, di pace e solidarietà. A tal fine l’istituzione religiosa richiedeva l’adempimento dei rituali della preghiera, della partecipazione all’eucarestia, del presepe, delle opere buone.

Il presepe era realizzato in chiesa col concorso della comunità: alle giovani spettava il compito di preparare il corredino del Bambino Gesù. Il tempio di Dio però andava edificato soprattutto interiormente con amore, fede, carità, speranza e gratitudine. Quanta fede ci fosse da parte della comunità non è dato sapere, riguardando l’interiorità individuale. Ciò che è manifesto e quindi accertabile riguarda la partecipazione ai rituali che secondo la voce dei nonni era pressoché corale nel periodo natalizio, coinvolgendo maschi e femmine.

La chiesa era gremita durante la novena che si celebrava alle cinque della mattina, prima che pastori, contadini e pescatori andassero a buscarsi il pane. Particolarmente sentita era la notte di Natale, allorché dopo avere cenato, a Cagnano - come si evince dal ricordo di anziani devote - ciascuno partiva dalla sua casa con un tizzone acceso in mano, che deponeva davanti alla Chiesa Madre, lasciandolo bruciare, quindi entrava.

“I maschi prendevano posto tutti a sinistra della navata centrale, ‘a lla via de la Madonna de li Grazije’, e le donne a destra, ‘a lla via de Sande Andòneje’. ‘Tutte li pasture cu li parafratte (pantaloni di pelle di capra) e li peddecciune’ (giacca ricavata dalla pelle di montone) si appostavano vicino alla cappella della Madonna delle Grazie, con la candela in mano. Il Bambinello era deposto sull’altare della Vergine, cui i cagnanesi erano tanto devoti.

A mezzanotte i pastori prendevano il Bambinello e lo portavano alla grotta del presepe, insieme ai doni: chi offriva un cestino con un po’ di pane, chi il formaggio. Ognuno portava qualcosa a Gesù, sia nella chiesa di Cagnano, sia di Carpino, Ischitella, Sannicandro, sia di ogni altro paese del Promontorio. Davanti al presepe giungeva di tutto: capitoni, pecorelle, agnelli, caprette, galline, arance, limoni, frutta secca.

Nato Gesù, i pastori intonavano “Tu scendi dalle stelle” e altri canti. Alla fine della funzione “li pasture pe li peddecciune si mettevano da una parte e dall’altra e dducchiavene li signurine” sperando in cuor proprio di poterle sfiorare anche se col gomito solamente. “Era uno spettacolo emozionante vedere quella fila di giovani che partiva dalla chiesa madre e finiva al palazzo baronale”, conferma il signor Pasquale di quasi novant’anni.

Oltre che in chiesa, il presepe si faceva in ogni casa, come prescrivevano gli insegnamenti impartiti dalla Chiesa, col concorso di donne, ragazzini e bambini, utilizzando le proprie mani e materiali poveri del posto, giacché non si comprava quasi nulla. Il muschio veniva raccolto nei terreni “a muriteche”, i personaggi erano ricavati dalla cera o dalla creta (la “pezze lama”), le casette dal cartone o dal legno, le montagne dalla carta, gli alberi dai rametti procurati in campagna.

I sentieri si facevano con la farina o con la rena, il laghetto con un foglio di carta colorata d’azzurro sistemato sotto un pezzo di vetro rotto. Anche l’albero di Natale - giunto dopo il presepe - vedeva entrare in scena i piccoli e la figura materna, nonché materiali poveri e autoctoni: un ramo di pino o d’ulivo addobbato inizialmente con frutta reperibile in casa.

La notte di San Silvestro, secondo tradizione, bisognava disfarsi delle cose vecchie: ed ecco, via da finestre o balconi, piatti e bicchieri screziati. Il giorno di Capodanno, invece, il costume voleva s’indossasse qualcosa di nuovo (“ca ce avèva ngegnà”). L’Epifania giungeva, infine, il sei gennaio per chiudere il ciclo delle feste, proprio come recita un altro proverbio: “Pasqua Eppifania ogn’e fèsta porta via”.

Era, questa, una festa istituita in epoca fascista, innestata sulla tradizione che voleva la sera del cinque gennaio le anime dei morti scendere a fare visita ai parenti, condividendo le loro gioie domestiche e la loro cena. A tal fine in ogni casa, quella sera, bisognava lasciare la tavola imbandita e andare subito a letto per non udire la “tromba de San Gelorme”, perché in caso contrario sarebbero dovuti morire durante l’anno. I bambini erano ansiosi di aprire la calza appesa la sera del cinque gennaio al camino e verificare se la befana fosse stata generosa con loro. Questa però, insieme alla frutta di stagione, faceva trovare immancabilmente un fagottino con cenere e carbone per ricordare loro che bisognava fare i bravi.

La religiosità garganica, come ciascuno ha avuto modo di notare, non si è mai liberata dei rituali magici, con la conseguenza che precetti cristiani e usanze pagane hanno convissuto. Superstizione e magia che sopravvive tuttora. Si continua infatti a pensare da parte di alcuni, che solo la notte di Natale le fattucchiere possano svelare la formula del malocchio, quella contro il mal di pancia o contro i vermi; che chi nasce la notte di Natale sia destinato a essere lupo mannaro, a meno che non venga inciso con la punta del coltello allo scoccare della mezzanotte per fare uscire il sangue malato; che le donne nel giorno dell’Epifania non debbano utilizzare filo e ago, altrimenti “ce cèchene l’òcchjie”.

Insieme alle superstizioni e alle credenze, però, sono giunte a noi anche le usanze del presepe, dell’albero e dei dolci. Come è giunta a noi la voglia di Natale. È il passato che vive e per certi versi continuerà a vivere anche grazie a iniziative promosse da Associazioni come “Punto di stella” che tuttavia non devono esaurirsi in rievocazioni più o meno nostalgiche del passato, anche travisato, ritenendo che si stesse meglio quando in realtà si stava peggio.

Incontri come questo devono costituire, invece, per tutti noi l’occasione per recuperare quei messaggi di amore, solidarietà e soprattutto unità predicati dal Vangelo che, a ben guardare, sono gli stessi alla base della nostra Costituzione. Il convegno di questa sera dovrebbe fare riflettere sul senso della cultura del Natale oggi che è sotto gli occhi di tutti, a esempio, la realtà di una società sofferente, la realtà di famiglie pronte a dividersi, di genitori pressoché assenti, impotenti di fronte a figli sempre più esigenti e vogliosi di crescere in fretta, figli fragili e senza bussola. Figli che, essendo senza esperienza necessitano di punti di riferimento, di guida, di educatori validi.

Dalla indagine condotta coi liceali di Cagnano Varano emerge che i giovani del Gargano attendono il Natale con ansia anche oggi, non tanto per soddisfare i “bisogni di pancia” (per lo meno non come in passato), quanto perché spinti dal bisogno di condividere spazi e tempi con le persone amate. Emerge che i nostri giovani si sentono soli. Il vuoto che ha lasciato la chiesa, per lungo tempo “maestra unica”, a seguito della contestazione, non è stato ancora colmato e questo non può lasciare indifferenti le istituzioni prevalentemente educative.

Famiglia, chiesa, scuola enti locali e quarto settore sono perciò chiamati, a mio avviso, a riappropriarsi della funzione educativa e operare in continuità. In caso contrario la faranno da padrone internet, la televisione, l’omologazione e la “liquidità” sociale.

Leonarda Crisetti

 Redazione

 

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