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22/05/2008

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DELITTO DI COGNE: LA “PROTAGONISTA” IN CARCERE

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Abbiamo letto, stiamo leggendo e purtroppo continueremo a leggere i commenti e le valutazioni di chi si erge a giudice e spara sentenze a raffica… possiamo dire “da sempre”? Non ci piace questo tipo d’informazione, non c’è mai piaciuta e continuerà a non piacerci, andando di pari passo con il numero di pezzi scritti (o da scrivere) sulla donna accusata di aver ucciso il proprio figlio. I tre gradi di processo si sono esauriti e la sentenza definitiva è stata emessa. Ma il “tribunale del popolo” ne è convinto?
Per carità, nessuna lancia da spezzare in favore di colei che la Cassazione ha stabilito essere una assassina e, in parallelo, nessuna levata di scudi a confermare che è stata “cosa buona e giusta” a cacciarla in una cella. Non siamo né innocentisti né colpevolisti, solo osservatori di una società, di cui noi e la Franzoni facciamo parte, che si sta aggrovigliando in una involuzione pericolosa, molto pericolosa. Basti pensare al valore (termine scomodo da usare in questa fase storica) della vita che non esiste più o quantomeno si è affievolito al punto che la sua intrinseca luce si è ridotta a un lumicino appena percettibile. Pleonastico elencare gli episodi che quotidianamente ci vengono sbattuti in faccia all’ora dei pasti.
Ugualmente non è proprio nostra intenzione entrare nel merito della questione, se risponde cioè a “vera verità” quanto successo, se siano state buone scelte la nomina da parte della famiglia - naufragata in una situazione al di là anche delle più robuste energie - di un certo difensore, che qualcuno afferma aver fatto più confusione che altro, e poi il defenestramento; oppure se il “presenzialismo” dell’entourage di una donna, che neanche lei si è mai raccapezzata nell’intero groviglio della vicenda, sia andato troppo oltre gli obiettivi strategicamente programmati; oppure se gli “errori” commessi - e ce ne sono stati, a quanto sembra - abbiano nuociuto al punto di convincere tutti (o quasi) di trovarsi di fronte a un “mostro”; però, ci sia concesso aggiungerlo, l’intero “affaire” non ha mai avuto, nel suo evolversi, un crisma di chiara trasparenza. Il “ragionevole dubbio”, lo stesso che negli Stati Uniti blocca una giuria e porta l’imputato a rivedere la luce del sole, è rimasto nel fondo dell’anima di ciascuno di noi per una serie di motivi che vanno dal mancato ritrovamento dell’arma all’altrettanto mancato cedimento della accusata.
E’ facile sottoscrivere adesso la corrente di pensiero legata a tribunali che non siano terrestri e umani, quindi resta la considerazione che nessuno di noi saprà mai come siano andate effettivamente le cose. Senza ricorrere alla psicologia o alla neurologia, alla psichiatria o a ciascuno dei settori collegati a queste branche di studio, e senza ergerci a giudici infallibili, si può abbastanza agevolmente concludere che “il caso non è chiuso”. Per noi. = ADMIN

 Redazione

 

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