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23/05/2010

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DA RODI A TORINO: IL RE DEL CIOCCOLATO

Clicca per Ingrandire L’esaltazione dei sensi. L’arte in cucina è questo. E’ una specie di viaggio al di là dei confini prestabiliti, dove tutto cresce sospinto dalle sensazioni. Il sapore, l’odore che sfiora le narici, la lingua che si divide come una mappa geografica e cerca di afferrare i gusti: ogni regione carpisce un segreto, lo assapora, sviscera, fa rivivere nell’anima. E gli occhi seguono il gesto, il naso si inebria al profumo, l’orecchio sente il “ritmo” della mandibola: “E’ lento, è rock”, direbbe Celentano. Il tutto diventa un condensato di dati provenienti da parti diverse del nostro corpo: in realtà non sono numeri ma qualcosa di più.

Specie se in bocca non avete un consommé, nulla togliendo a questo nobile piatto francese, ma un cioccolatino. Sublime. Piccolo. Piacere. Ciack, si gira. Sceneggiatura: il piccolo scrigno marrone (più chiaro, più scuro: dipende dal cacao) entra in bocca. Accarezza la lingua. Nota del regista: le labbra si devono muovere con piacere. Due colpi decisi per aprirlo, con i denti che si sporcano di cacao. Secondi, interminabili, per assaporare. Poi la saliva annienta tutto, il cioccolato va giù. Ma la magia rimane. Nella bocca, sulle gengive, sul palato, sui denti. “Stop, buona la prima!”

Per raccontare la vita di uno che lavora col cioccolato si potrebbe partire da qui. Da quest’immagine da film, molto sensuale per un cibo che è notoriamente afrodisiaco. Ma si potrebbe iniziare anche dall’assaggio di una sua creazione. O si potrebbe cominciare dal profumo. Quello che ti circonda quando fai capolino nel suo regno e pervade muri, mobili, oggetti. Ti s’intrufola nelle narici e ti fa venire l’acquolina. Quando esci, stranamente, rimane lì. Vorresti che si fosse aggrappato al lembo della giacca o ai capelli, come avviene al ristorante cinese. E invece no: come nelle favole, rimane nel regno.

Ora, Gianni Di Biase, il protagonista di questa storia (foto del titolo; ndr), non ha l’aria del principe. Non perché nel suo settore non lo sia, ma perché è uno che lo immagini sempre con le mani in pasta. Ops, meglio dire, nel cioccolato (foto 1 sotto). O nella torta, al massimo. Lo vedi come un’artista, ma di quelli che preferiscono sgobbare nei loro studi, per lui la cucina. Ancor di più lo vedi come un artigiano. Come quelli del passato, delle botteghe con una luce fioca, i vetri appannati e la notte buia fuori. Uno che studia con passione, ricerca. Quando parla, lo capisci subito che lui è così. Ogni risposta è un viaggio, si esce dalla domanda e vagabonda tra segreti, storie, detti popolari, gusti di re e regine.

“Da dove eravamo partiti?” Già, da dove eravamo partiti? Da lui, pugliese trapiantato a Rivoli il 1964. Che inizia in panettiera: “Da bambini, quando mia mamma faceva il pane o i dolci, la guardavo sempre. Era per me molto affascinante”. Un bel giorno ci prova con la pasticceria, un po’ perché al pomeriggio è libero dal lavoro di fornaio e vuole guadagnarsi due lire in più, un po’ perché il pane, per quanto sia vario, quello è. Di Biase non lo sa ancora: ma sta andando alla ricerca dell’arte. O comunque di un campo dove fare arte.

E così, dopo aver maturato un po’ di esperienza, abbandona il lavoro da garzone e il ’74 apre una pasticceria. Per anni, quasi quindici, fa torte, paste, croissant per le bocche dei tanti che arrivano a Cascine Vica e cercano qualcosa di dolce. Finché la storia cambia. Il suo negozio, per la verità, rimane lo stesso. E lo è ancora, in via Po 14. Potrebbe essere come una delle tante bomboniere che ci sono a Torino, tra mobili scuri e cioccolato, tenute da chi, come lui, è andato oltre ed è divenuto un maitre chocolatier. Invece tutto è rimasto come un tempo. Il bancone di vetro. Le paste. La moglie sorridente dietro (foto 2). Le due porte per entrare. Le panche. I prodotti negli scaffali. Tutto come il negozio aperto a metà degli anni ‘70.

Di Biase no. Lui ha studiato, ricercato, provato. Ha continuato a sfornare torte, paste e croissant ma un bel giorno ha fatto capolino nei concorsi. Ha iniziato a sbizzarrirsi e a vincere. Anzi, al primo concorso, nel castello di Mango, ha stravinto portandosi a casa tre premi, presentando tre panettoni decisamente particolari. Tutti lo guardavano: “Ariva da Riuli” (“Arriva da Rivoli”; ndr). Nessuno lo conosceva ancora. E per la serie viene prima l’uovo o la gallina, per lui dall’uovo. Di Pasqua (foto 3). Inizia con la decorazione di questi simboli pasquali. Si sbizzarrisce, li riempie di fiori che gli ricordano la sua Puglia, i giardini dove scorrazzava da bambino. Inizia a fare arte.

Poi studia. Il cioccolato, naturalmente. Il più piemontese dei simboli, il cibo degli dei. Insieme a cosa? Il vino, dio Bacco. Già, perché non abbinarli, pensa? E lo fa, una decina di anni fa. Beccandosi del visionario da tutti. Viene visto come il meridionale che vuole insegnare la pasticceria piemontese ai piemontesi. Vuole insegnare a fare la cioccolata ai torinesi, i re del settore: come si permette? E lui, a un re pensa. Emanuele I detto il Grande che voleva sempre nel suo menù, a fine pasto, sempre lo zabaione. E anche i poveri, lo facevano, lo “sambajon”.

“Coi vini propri: non avevano certo il marsala. Usavano il vino della cantina, con le uova e lo zucchero” racconta Di Biase. Che capisce che la sua idea di usare il vino in pasticceria non è follia. Sviluppa una crema di vino per riempire un cioccolatino. Il primo esperimento è col Passito di Moscato. Poi si cimenta con vini più corposi. Nebbiolo, Barbaresco, Barbera. Fino ad arrivare a Freisa, Bequèt, Avana, “Cru” Barbera (foto 4). Per ogni vino, è maniacale. Ne prende due, tre bottiglie dello stesso tipo, sceglie quello che gli sembra migliore. “Poi mi alzo la mattina e lo assaggio: per sentire con la bocca secca le qualità del vino”.

Finito il pranzo, un altro assaggio: “Per cogliere altre caratteristiche, quando la lingua ha già sentito vari gusti”. E così in avanti, non per bere pintoni o ubriacarsi, ma per lasciare galoppare i sensi. Per carpirne i segreti. A seconda degli zuccheri e sapori bisogna combinare la massa cacao nella giusta percentuale. Alla fine, ne nasce un cioccolatino ripieno non di vino, ma di crema di vino. Cosa molto diversa, molto più delicata e meno impattante. Dentro non c’è il liquore: c’è una crema soffice che t’accarezza la lingua, la ricopre. Poi lascia intravedere il vino. I suoi profumi, la sua anima. Il contrasto. Una cosa dolce e una amara.

La ricetta di questo sapiente incontro è semplice: in ogni cioccolatino c’è vino, cioccolato e rossi d’uovo. Ma ogni volta è come trovare la pozione magica. Bisogna bilanciare tutto in un gioco di sensi. “Le prime volte è tragica” afferma il pasticcere. Ma nulla lo spaventa. I clienti, per sfida, gli portano bottiglie. Lui, dalla sua, si fa arrivare vini da tutta Italia, sfoglia cataloghi per conoscerne di nuovi. Ci ha provato persino con quelli della Val di Susa a fare i cioccolatini, ma la sua cantina è fatta di nomi stranissimi (“Sai che esiste un vino che si chiama Scoppiettino?” chiede, per tirarlo fuori e metterlo sul tavolo). In una stessa area, ci sono variazioni diverse dello stesso vino: vanno studiate e capite. Ognuno ha le sue caratteristiche. Insomma, viva l’esaltazione delle particolarità: “Io non ho mai scelto le creme standard che vengono vendute ai pasticceri per riempire i cioccolatini proprio per evitare il piattume”.

Prima di tutto ci fu il Nebbiolo: “E un giorno metterò fuori una targa: grazie Nebbiolo. E lui che mi ha aiutato a capire gli altri vini”. Cosa non semplice. “E’ un processo lunghissimo: di confronto, prima di tutto”. Con se stessi ma anche con gli altri: i produttori, ad esempio, che Di Biase incontra e con cui trascorre pomeriggi. Per lui, le parole degli altri sono fondamentali. Verrebbe da dire: quanto serve saper ascoltare. Va nelle cascine, ascolta anziani. Si cimenta col piemontese, che da pugliese sa anche parlare discretamente. E così tira fuori i dolci del passato, altra sua specialità.

Una signora un giorno arriva nel suo negozio. Gli racconta che la sua bisnonna in campagna faceva un dolce con gli avanzi della settimana. Ovvero biscotti, pane, frutta e spezie. Nasce la torta ‘La Monferrina’. “Ma quello che ci tengo a sottolineare è che io non recupero vecchie ricette. Le trasformo e riadatto”. Il motivo è semplice: “Oggi i forni sono diversi, le farine di una volta non esistono più. Tutto è cambiato”. Ma qualcosa rimane. La signora che gli ha raccontato la ricetta torna e glielo dimostra. Assaggia la torta e piange. Così, nel laboratorio di Di Biase. Lunghi lacrimoni che scendono sul viso. “E’ una delle cose che mi ha emozionato di più nella carriera: quella donna mi ha detto che in quel momento gli sembrava di avere le sua bisnonna lì, di essere tornata bambina”.

Nascono altre torte. Come il ‘Dolce Duca’, un’invenzione elaborata dopo lunghe e laboriose ricerche negli antichi ricettari delle nobili famiglie piemontesi, che il rivolese dedica a sua altezza reale Vittorio Amedeo II Duca di Savoia. E’ prodotto con ingredienti semplici della tradizione piemontese. Farina, Nebbiolo, zucchero, uova, burro, amido di riso. Prelibatezza in più, l’uvetta messa a macero e riportata al naturale nel Nebbiolo. Un dolce che vale la pena di citare è ‘Ripulae’, che porta l’antico nome della città di Rivoli. Qui cioccolato e pasta di mandorle vivono insieme, la magia degli antichi sapori delle terre di Savoia si sposano col Sud. “L’Italia ha dei prodotti stupendi”. Quindi, sì ai connubi. Come quelli con gli agrumi della sua terra, Rodi Garganico. Di Biase si fa arrivare limoni e arance tutto l’anno (foto 5-6). Li prendi in mano e ti trasportano lontano, ricchi di profumo e colore come sono. Li apri e il liquido ti brucia le dita e ti stuzzica il naso. “I canditi nei panettoni, ad esempio, me li faccio io con questi limoni. E’ tutta un’altra cosa”. Nasce così anche il dolce ‘Rodi’(foto 7), con gli agrumi.

E, parlando con Di Biase, si va avanti così. Si viaggia fra le storie delle famiglie dei Savoia, i ricordi da bambino, le leggende, le sue invenzioni (foto 8-9-10). “Da dove siamo partiti?” domanda poi. “Aspetta che ti faccio assaggiare questo cioccolatino”. Ecco da dove siamo partiti. Da lì... Gnam!

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