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09/05/2010

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“MI LASCINO ANDARE! COSA VOGLIONO DA ME?”

Clicca per Ingrandire Il 9 maggio 1978 il corpo senza vita dello statista democristiano Aldo Moro (foto del titolo; ndr) viene trovato nel portabagagli di una Renault rossa parcheggiata dalle Brigate Rosse in via Caetani, a metà strada fra le sedi romane di Dc e Pci. Sotto la targa che ricorda il suo sacrificio le corone di fiori del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e del ministro della Giustizia, Angelino Alfano.

Così il Capo dello Stato ha voluto ricordare l'anniversario del sacrificio di Aldo Moro. Una corona di fiori è stata deposta dal consigliere per gli Affari Giuridici e le Relazioni Costituzionali, Salvatore Sechi, in via Caetani e un cuscino di fiori sulla tomba a Torrita Tiberina. Ai piedi della targa in via Caetani anche le corone d'alloro e dalle vicepresidenti di Camera e Senato, Rosi Bindi e Emma Bonino.

Dopo un sequestro durato 55 giorni, il ritrovamento del cadavere del presidente democristiano concluse la più fosca vicenda della Prima Repubblica, iniziata il 16 marzo col suo rapimento e la strage di via Mario Fani nella quale morirono gli uomini della scorta.


LA MEMORIA = La mattina del 16 marzo 1978 il nuovo governo guidato da Giulio Andreotti sta per presentarsi in Parlamento per ottenere la fiducia. L'auto che trasporta l'onorevole Aldo Moro dalla sua abitazione alla Camera dei Deputati è intercettata in via Mario Fani a Roma da un commando di undici componenti delle Brigate Rosse. Sparando con armi automatiche, i terroristi uccidono i due carabinieri a bordo con lo statista e i tre poliziotti sull'auto di scorta, e sequestrano il presidente della Democrazia Cristiana.

In pochi secondi vengono sparati 91 colpi (49 da una stessa arma, 22 da una seconda arma del medesimo modello e i restanti 20 da altre 4 armi); 45 quelli che colpiscono mortalmente gli agenti. I primi a cadere, Domenico Ricci e Oreste Leonardi, autista e caposcorta, seduti nell’auto di Moro. Immediatamente dopo i tre poliziotti dell'auto di scorta (Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi, finiti con un colpo alla nuca - solo Jozzino ha il tempo di sparare due colpi, ma viene subito freddato con un colpo alla testa). Il presidente è prelevato e costretto a salire su una Fiat 132. Una donna lo sente esclamare: “Mi lascino andare! Cosa vogliono da me?”


LA PRIGIONIA = Dura 55 giorni (foto 1 sotto) durante i quali Moro - sottoposto a un processo politico con richiesta, vana, di uno scambio di prigionieri con lo Stato italiano - scrive 86 lettere ai principali esponenti della Democrazia Cristiana, alla famiglia e al Papa del tempo, Paolo VI, cercando di aprire una trattativa coi colleghi di partito e le massime cariche dello Stato. Alcune arrivano a destinazione, altre non sono mai recapitate e ritrovate in seguito in uno dei covi BR.

Anche i brigatisti scrivono: nove comunicati, coi quali assieme alla Risoluzione della Direzione Strategica (cioè il massimo organo della formazione armata) spiegano i motivi del sequestro. Documenti lunghi, a volte quasi illeggibili, che propongono di scambiare la vita di Moro con la libertà di alcuni terroristi imprigionati. Accetterebbero persino di scambiarlo con un solo brigatista incarcerato, anche se non di spicco, pur di poter trattare alla pari con lo Stato. In risposta ottengono solo il drammatico appello pubblico di papa Paolo VI (amico personale di Moro) che li supplica "in ginocchio" di renderlo alla famiglia e ai suoi affetti, specificando tuttavia che ciò avvenga "senza condizioni".


LA POLITICA = Si divide in due fazioni: il "fronte della fermezza”, che rifiuta qualunque ipotesi di trattativa, e il "fronte possibilista" per il quale un eventuale avvicinamento analitico all'ipotesi di trattativa non svilirebbe la dignità dello Stato. Secondo il primo la scarcerazione di alcuni brigatisti equivale a una resa dello Stato, non solo per l'accondiscendenza a condizioni imposte, ma per la rinuncia all'applicazione delle sue leggi e alla certezza della pena. Una trattativa coi rapitori creerebbe un precedente per nuovi sequestri - strumentali al rilascio di altri brigatisti - o all'ottenimento di concessioni politiche. In buona sostanza costituirebbe il riconoscimento politico delle Brigate Rosse.

La linea del dialogo aprirebbe alla possibilità di una rappresentanza partitica e parlamentare del loro braccio armato, ponendo questioni di legittimità in merito alle loro richieste. I metodi intimidatori e violenti, e la non-accettazione delle regole basilari della politica, pongono il terrorismo fuori del dibattito istituzionale, in modo indipendente dal merito delle loro richieste. A prevalere è il primo orientamento, anche in considerazione del gravissimo rischio di ordine pubblico e coesione sociale che si correrebbe presso la popolazione, e in particolare, presso le forze dell'ordine, che in quegli anni hanno pagato un tributo di sangue già insostenibile a causa dei terroristi.

Le BR rispondono così: “Per quanto riguarda la nostra proposta di uno scambio di prigionieri politici perché venisse sospesa la condanna e Aldo Moro venisse rilasciato, dobbiamo soltanto registrare il chiaro rifiuto della Dc. Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato”.


L’ESECUZIONE = Alle 6 di mattina del 9 maggio 1978, Aldo Moro viene fatto alzare con la scusa di essere trasferito in altro covo, infilato in una cesta di vimini, portato nel garage, fatto entrare nel portabagagli di una Renault 4 rossa targata Roma N56786, coperto con un lenzuolo rosso e ucciso con una pistola, che si inceppa, e una skorpion. L'auto è portata in Via Caetani, senza effettuare soste intermedie, e parcheggiata un'ora dopo fra le sedi Dc e Pci. Quindi si telefona a Francesco Tritto, assistente dello statista, perché annunci alla famiglia dove trovarne il corpo e alla Questura: "In via Caetani c'è un'auto rossa con il corpo di Moro" (foto 2).


PERCHE’ = Si è detto che Moro fu rapito perché in lui le Brigate Rosse volevano colpire l'artefice della “solidarietà nazionale” e dell'avvicinamento fra Dc e Pci, la cui espressione fu il quarto governo Andreotti. L'ottica delle BR, in realtà, era un po' diversa: il rapimento in effetti non fu realizzato per colpire il regista di quella fase politica.

Lo scopo era più generale e rientrava nella loro particolare analisi di quella fase storica: colpire la Dc (regime democristiano), cardine in Italia dello Stato imperialista delle multinazionali, mentre il Pci rappresentava non tanto il nemico da attaccare quanto un concorrente da battere. Nell'ottica brigatista, infatti, il successo della loro azione avrebbe interrotto la "lunga marcia comunista verso le istituzioni", affermato la prospettiva dello scontro rivoluzionario e posto le basi del controllo della sinistra italiana per una lotta contro il capitalismo.


LA SCHEDA = Aldo Moro nasce nella salentina Maglie da genitori originari di Gemini, frazione di Ugento (Le). A quattro anni si trasferisce con la famiglia a Taranto, dove consegue la Maturità Classica al Liceo Archita. Si iscrive all'Università degli studi di Bari, Facoltà di Giurisprudenza, dove si laurea, sotto la guida del prof. Biagio Petrocelli, con una tesi su "La capacità giuridica penale".

Durante gli anni universitari è iscritto ai GUF e partecipa ai Littoriali della cultura e dell'arte. Milita, con Giulio Andreotti, nella Federazione Universitaria Cattolica Italiana (Fuci), di cui è presidente nazionale tra il 1938 e il 1941. Dopo qualche anno di carriera accademica, fonda nel 1943 a Bari, con alcuni amici, il periodico “La Rassegna” che esce fino al 1945, anno in cui sposa Eleonora Chiavarelli, con cui ha quattro figli: Maria Fida, Agnese, Anna e Giovanni.

Nello stesso anno diventa presidente del Movimento Laureati dell'Azione Cattolica e direttore della rivista «Studium». Tra il ’43 e il ’45 inizia a interessarsi di politica e in un primo tempo mostra particolare attenzione alla componente della "destra" socialista. Successivamente però il suo forte credo cattolico lo spinge verso il costituendo movimento democristiano. Nella Democrazia Cristiana mostra subito la sua tendenza democratico-sociale, aderendo alla componente dossettiana (in pratica la "sinistra Dc").

Nel 1946 è vicepresidente della Democrazia Cristiana ed eletto all'Assemblea Costituente, dove entra a far parte della Commissione che si occupa di redigere il testo costituzionale. Eletto deputato al Parlamento nelle elezioni del ’48, è nominato sottosegretario agli Esteri nel gabinetto De Gasperi. Diviene ordinario di diritto legale all'Università di Bari e nel 1953 è rieletto alla Camera, dove ricopre la carica di presidente del gruppo parlamentare democristiano. Nel 1955 è ministro di Grazia e Giustizia nel governo Segni e l'anno dopo risulta tra i primi eletti nel consiglio nazionale del partito durante il 6° congresso nazionale del partito.

Ministro della Pubblica Istruzione nei due anni successivi (governi Zoli e Fanfani), introduce lo studio dell'educazione civica nelle scuole. Nel 1959 gli viene affidata la segreteria del partito durante il 7° congresso nazionale. Nel 1963 ottiene il trasferimento all'Università di Roma, in qualità di titolare della cattedra di Istituzioni di Diritto e Procedura penale nella Facoltà di Scienze Politiche.

Fino al 1968 ricopre la carica di Presidente del Consiglio alla guida di governi di coalizione col Partito Socialista Italiano, insieme agli alleati tradizionali della DC: i socialdemocratici e i repubblicani. Dal 1969 al 1974, assume l'incarico di ministro degli Esteri, per divenire nuovamente presidente del consiglio fino al 1976. Nel ’75 il suo governo conclude il Trattato di Osimo, con cui si sancisce l'appartenenza della Zona B del Territorio Libero di Trieste alla Jugoslavia. Nel 1976 viene eletto presidente del Consiglio Nazionale del partito.

L’Università di Bari si chiama oggi “Università Aldo Moro”.

 Redazione

 

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