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01/02/2010

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CONOSCEVO UN TALE DI NOME…

Clicca per Ingrandire Non si può vivere serenamente quando arrivi a capire che tutto quanto ti circonda emana un olezzo talmente sgradevole che non ti permette nemmeno di tenere gli occhi aperti. Oggi tutti fanno finta di guardare. Oggi fanno tutti finta di ascoltare. Oggi fanno tutti finta di capire. Forse non da oggi, forse da sempre. Forse è proprio per questo che la nostra esistenza deve finire. Forse è proprio per questo che la gente muore. Nessuno riesce a capire la vita… ma è una stronzata colossale, perché la vita è immensamente semplice. Il fatto è che tutti quei pecoroni che dicono un’eresia simile è perché non sono mai riusciti a vivere la vita.

La vita è il bene più prezioso che l’Ente Supremo ci ha posto sulle mani. Subito dopo avercela regalata ci ha detto: “Bene, questa è la vita, vivila come ti pare e senza remore, tanto la morte in ogni caso sarà la giusta conseguenza di quello che farai”. Vivere la vita sta tutto qua. La grande perla di saggezza, la grande risposta che tutti cercano in maniera disperata, è sempre stata sotto i loro occhi. La vita va vissuta, e non guadagnata. Nessuno si deve guadagnare la vita. L’essere umano non è stato posto su questa meravigliosa superficie per spalare e mangiare merda per tutta l’esistenza. E’ stato posto qui perché viva il più serenamente possibile. E’ stato posto qui per apprezzare le piccole grandi cose che circondano ognuno di noi. L’uomo è creativo, fantasioso, amabile almeno quanto detestabile, un mix perfetto tra il grande bene e il grande male… Poi ognuno decide dove schierarsi.

- Conoscevo un tale di nome Mario. Aveva trentanni. Si alzava ogni giorno alle prime luci dell’alba per andare a lavorare in fabbrica. Sgobbava come un bastardo, Mario. Lavorava le sue otto ore al giorno, con quell’oretta di pausa usata per distendersi e mangiare un panino pensando fosse merda. Faceva un sacco di straordinari, Mario. Lo faceva per Isabella, sua moglie, e lo faceva per Caterina, sua figlia. Mario guadagnava a sufficienza da permettere al suo nucleo familiare di andare avanti. Tutti avevano un piatto caldo in tavola e un tetto sulla testa. Tutti avevano vestiti per coprirsi e letti sui quali dormire. Mario rincasava sempre all’orario del tramonto. Caterina salutava sempre il suo papà quando tornava a casa. Isabella dava sempre un bacio al suo Mario. Il momento della giornata che Mario prediligeva era la sigaretta dopo cena, fumata sul balcone gelido per non far respirare fumo passivo alla sua bambina. Stava sul balcone con la sua seggiola, e usufruiva di quei cinque minuti di silenzio e pace per pensare alla sua giovinezza, quando orari e doveri non lo riguardavano. Quando la vita era un piacere scontato, e non un vizio da mantenere.

Mario non era felice.


- Conoscevo un tale di nome Maurizio. Aveva quarantanni. Maurizio si alzava ogni giorno per andare nel suo avviatissimo studio di commercialista. Stava tutto il giorno al telefono e al pc per sbrigare le mille faccende che il lavoro comportava. Ogni tanto chiamava la segretaria nello studio per farsi fare un pompino, poi verso le cinque staccava, rimontava sulla sua Porche e tornava a casa. Si faceva una doccia e indossava altri abiti firmati. Bella casa, bella macchina e tante belle cose. Cenava da solo, il più delle volte con cibarie ordinate per telefono. Cenava da solo perché non aveva mai avuto tempo di coltivare un rapporto duraturo con nessuno. Fosse un amico piuttosto che una compagna, questo non aveva importanza. Il momento che Maurizio preferiva della sua giornata era la nascita della notte, quando usciva con la Porche in cerca di una puttana da portare a letto. Quell’atto sessuale lo faceva sentire vivo: era il contatto umano che gli mancava, ma che non era mai stato in grado di procurarsi normalmente. Maurizio non poteva comprare l’affetto delle persone.

Maurizio non era felice.


- Conoscevo una tale di nome Antonietta. Aveva sessantanni. Antonietta si alzava ogni mattina per sfaccendare le sue incombenze di casalinga. Aveva avuto quattro figli che le avevano rubato la giovinezza alla tenera età di ventanni. Aveva sposato un uomo che fondamentalmente non l’aveva mai sopportata, e questo l’aveva portata a sacrificare la propria vita a vantaggio dei figli. Li aveva cresciuti amorevolmente e loro per tutta gratitudine, una volta grandi e autosufficienti, le avevano tirato un calcio nel culo lasciandola alla sua solitudine. Antonietta per sopperire a questa mancanza aveva deciso qualche decennio prima di affidarsi alla religione. Aveva così trovato l’amore incondizionato di persone che ascoltavano le sue paturnie di repressa dandole ragione su ogni lamentela. Il momento della giornata che preferiva Antonietta era incentrato sulla televisione, il grande guru del ventunesimo secolo. I suoi orari di felicità fatua erano dettati da un elettrodomestico che, trasmettendo qualche porcheria, era capace di portarla lontana dalla noiosa routine di tutti i giorni. Lontana da quel marito che amava ma dal quale si era fatta odiare. Lontana da quei figli ingrati e indegni.

Antonietta sorrideva sempre, ma era triste e viveva di rancori.


- Conoscevo un tale di nome Emilio. Aveva cinquantanni. Emilio si faceva chiamare Padre Emilio. Faceva il prete. Emilio aveva avuto un padre alcolista che quando tornava a casa lo picchiava a sangue con la cinghia e stuprava sua sorella Francesca. Emilio piangeva ogni notte per la dipartita di sua madre. Emilio conobbe Padre Vincenzo che lo accolse di buon occhio, prima nel suo oratorio, poi nella sua chiesa e infine nella sua sacrestia. Lo accolse in casa propria per tenerlo distante dal padre violento. Emilio sentì la chiamata di Dio una notte, una chiamata che gli diceva che doveva dedicare la propria vita al suo servizio. Prese i voti e diventò prete. Padre Emilio si alzava ogni giorno all’alba per officiare la messa ai suoi parrocchiani. Padre Emilio confessava tutti i suoi parrocchiani durante gli orari prestabiliti, come se la voglia di redenzione da parte di ognuno arrivi come una pizza a domicilio. Padre Emilio amava poter fare del bene ai suoi parrocchiani, e guardare i bambini che giocavano nell’oratorio insieme a lui. I suoi fedeli lo amavano. Era il padre della loro comunità da più di quindici anni. Il momento della giornata che preferiva padre Emilio arrivava dopo l’ultima messa, quando stanco poteva tornare in canonica e levarsi i vestiti scomodi che dipingevano ogni giorno la sua figura. Nudo, si metteva davanti al computer e si… Padre Emilio non riusciva a parlare con Dio da molto tempo.

Padre Emilio era perverso. Ma era felice della sua perversione.


- Conoscevo una tale di nome Erika. Aveva ventisette anni. Erika faceva la parrucchiera. Erika si alzava ogni mattina alle sei e mezzo per arrivare in orario all’apertura del salone che dopo tanta gavetta e sacrifici era riuscita ad aprirsi. Erika amava il suo lavoro, ma non era un amore incondizionato. Derivava soprattutto dalla sua anima vuota. Erika non aveva mai avuto la forza di voler conoscere la vita e le esistenze che la circondavano. Non aveva amici e non aveva interessi, ma aveva un marito, un marito che diceva di amarla. Così Erika passava tutto il tempo con un elettrodomestico in mano per dare una parvenza di bellezza a quelle galline che le raccontavano chiacchiere da sciampista. Erika non conosceva la grande musica. Erika non conosceva la grande letteratura. Erika non conosceva la grande arte. Erika non conosceva il grande cinema. Erika non conosceva la bellezza di un pomeriggio passato sull’erba ad ascoltare le fregnacce di qualche amica. Erika non conosceva la bellezza del tempo e non lo sapeva apprezzare. Il momento che preferiva della sua giornata era quando tornava a casa dal lavoro, e dopo essersi fatta una bella doccia e aver mangiato qualche porcheria si concedeva qualche minuto di televisione prima di addormentarsi, perché Erika amava addormentarsi con la televisione accesa. Non le piaceva nemmeno pensare prima di andare a dormire, ma solo perché Erika non sapeva pensare.

Erika respirava ogni giorno, ma era morta già da tanto tempo, almeno da quell’ultima volta in cui da bambina aveva giocato.


- Conoscevo un tale di nome Aldo. Aveva trentanni. Aldo aveva sofferto nella sua infanzia a causa del divorzio dei genitori. Ad Aldo non era mai mancato niente, tuttavia. Non l’affetto dei genitori che continuavano ad amarlo, né alcun bene fisico o materiale. Aldo si era sempre sbattuto nella sua vita, l’unico problema è che non l’aveva mai fatto per se stesso, ma solo per offrire una buona parvenza agli occhi che lo circondavano. Ad Aldo piaceva dare una buona opinione di sé, questo lo aveva sempre portato a reprimere le proprie argomentazioni per non risultare sgradevole. Aldo era sempre stato molto intelligente e della sua intelligenza aveva sempre fatto virtù. Ma Aldo continuava a fingere su tutto. Faceva finta di amare la ragazza che aveva accanto. Faceva finta che il posto di lavoro che un milione di ragazzi vorrebbe gli piacesse veramente. Aldo ripeteva sempre una frase: “Tutte le cose che faccio le faccio bene… non mi riesce di farle male”. Era abituato a ricevere complimenti ed elogi per tutto quello che faceva. Aldo però non aveva mai avuto le palle di rischiare. Non aveva mai avuto le palle di lasciare quel posto di lavoro. Non aveva mai avuto il coraggio di cercare la propria autostima, sentendosi così costantemente vuoto e inappagato.

Aldo era un uomo di successo, ma ogni notte nell’intimità delle lenzuola si sentiva un perdente.

Michele Marino

 Redazione

 

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