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18/11/2009

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“TE LO DICO IO COME STANNO LE COSE”

Clicca per Ingrandire Mettetevi comodi prima di iniziare a leggere questa intervista. E fatelo per due ragioni: la prima, preliminare, perché l’intervista è lunga. La seconda perché, proprio per il dettaglio delle risposte, vi racconterà un pezzo di storia che sui giornali leggete di rado. Dovete andare a cercarvela, questa informazione, tra le rare incursioni sui quotidiani nazionali o nelle colonne della stampa quasi di nicchia.

Eppure Gianni Lannes, il giornalista che parla nelle righe che seguono, a qualcuno dà fastidio. Dà fastidio al punto che nei giorni scorsi ha subìto una nuova - e non di scarso rilievo - intimidazione. Come scrisse il giornalista Andrea Purgatori nella sceneggiatura del film “Il muro di gomma” (in VIDEO DELLA SETTIMANA alcuni trailer; ndr), racconto della sua indagine sull’abbattimento del DC9 dell’Itavia nei cieli di Ustica, “la notizia è finita a pagina 16, ma qualcuno l’ha letta”. Non occorre conquistarsi le aperture delle prime pagine, per dimostrare la propria professionalità. E non occorre conquistarsele nemmeno per vedersi minacciati di morte.

Insomma, prendetevi il tempo che vi serve per leggere quanto vi viene raccontato. Fatelo “a puntate”, nel caso non possiate farlo in un fiato, ma arrivate fino in fondo. Perché ci sono aspetti della vostra vita che non vi vengono raccontati. Eppure qualcuno paga per tutti scontando la “colpa” di ricostruirli, quei fatti. Paga anche per voi.

A.B. - Un’auto incendiata a luglio, promesse di morte arrivata via mail e nei giorni scorsi l’esplosione della seconda vettura. Ma cosa stai scrivendo che dà così tanto fastidio?
G.L. - Non ho bisogno e non mi interessa fare pubblicità, ma ho appena pubblicato un libro intitolato “Nato: colpito e affondato” relativo a una quasi sconosciuta Ustica bis - anche se ne avevo anticipato in sintesi i contenuti esplosivi il 4 novembre 2008 sul quotidiano “La Stampa” - relativa ai trattati segreti fra il nostro Paese e gli Usa, ma soprattutto l’Alleanza atlantica. Il 2 luglio mi sarei dovuto recare a Napoli per intervistare il professor Giulio Russo Krauss, docente all’Accademia navale di Livorno, all’Università Federico II, nonché consulente giudiziario. Ma qualcuno ha pensato bene di disintegrare l’autovettura di mia moglie sotto la mia abitazione sconosciuta ai più.

Un errore di valutazione, una intimidazione? Un altro dato è certo: tre giorni prima avevo ricevuto una mail con specifiche minacce di morte. Per conto della Rai, o meglio della trasmissione “La storia siamo noi” del collega Minoli, sto realizzando un servizio televisivo sul caso del peschereccio “Francesco Padre”, legato da un solido filo rosso alla vicenda del Moby Prince, del Cermis, di Ustica e del duplice omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Insomma, roba di poco conto nell’Italia di papi e veline: traffico di armamenti fra Stati, giochi di guerra nei mari italiani, segreti militari, sovranità limitata e perfino smembramento a tavolino della Jugoslavia.
Tanto che proprio recentemente, il presidente del Consiglio (dei ministri; ndr) ha pensato bene di sigillare le nefandezze della Nato che riguardano il Belpaese, addirittura attraverso la promulgazione del decreto 12 giugno 2009, pubblicato con tanto di ‘omissis’ in Gazzetta Ufficiale il 6 luglio scorso.

Purtroppo, quasi nessuno si è accorto del bel gesto: forse le sedicenti grandi firme dello Stivale erano in vacanza. Il 23 luglio quando ignoti hanno sabotato i freni della mia auto mi sarei dovuto recare alla procura della Repubblica di Trani per la disamina di documentazione giudiziaria attinente gli intrecci appena indicati. Il 5 novembre ho trascorso gran parte della mattinata al tribunale di Lucera (sorta di porto delle nebbie in scala locale), in provincia di Foggia, per visionare un fascicolo impolverato e dimenticato concernente il caso della nave nipponica “Et Suyo Maru” (meglio nota come “Eden cinque”; foto del titolo; ndr) abbandonata con il suo carico letale di rifiuti pericolosi il 16 dicembre 1988 nel mare Adriatico.

Infatti, recentemente, sotto impulso di numerose associazioni del Gargano e dell’opinione pubblica pugliese, ho ripreso le inchieste sulle famigerate navi dei veleni. Del fenomeno avevo iniziato a occuparmene al termine degli anni ’80. Nel 1998 (“La Nuova Ecologia”) e nel 1999 (“Avvenimenti”), un mensile e un settimanale a tiratura nazionale avevano pubblicato i miei primi approfondimenti in materia. Nel 2006, dopo tre anni di lavoro in prima linea per conto di “Famiglia Cristiana”, con inchiesta di spessore internazionale, dopo aver concordato con il direttore la pubblicazione di un’approfondita inchiesta sulla delicata questione, ho appreso da colleghi che il mio lavoro non sarebbe mai uscito.

A.B. - Dunque hai lavorato per nulla?
G.L. - Così è stato: nel 2006 il noto periodico mi ha pagato una lauta cifra per un’inchiesta scottante affinché rimanesse sigillata in un cassetto. Ho tentato invano di chiedere spiegazioni a don Antonio Sciortino, ma il prete si è rifiutato addirittura di parlarmi al telefono. Così il 23 febbraio 2007 dopo aver ulteriormente approfondito il tema ho pubblicato quel lavoro sul settimanale “Left”. A dirla tutta, prima ancora sono stato costretto ad abbandonare in tutta fretta Roma, dove ho vissuto e lavorato per lunghi anni, dopo aver pubblicato sul quotidiano “Il Manifesto” l’inchiesta “Il secondo omicidio di Ilaria e Miran. Targato Taormina”. Come è noto il penalista di fama a capo della commissione di inchiesta ha sostenuto la inverosimile convinzione che Ilaria e Miran fossero andati a trascorrere le vacanze in Somalia. Purtroppo, per sfortuna dell’avvocato Taormina, ho smontato il suo sgangherato teorema.

Un particolare non ancora pubblicato: qualche anno prima che il principe del foro esternasse ‘urbi et orbi’ la sua convinzione sul caso, mi era capitato di intervistarlo in più occasioni nel suo studio di via Cesi. In un archivio ben protetto e al sicuro all’estero, è custodita la registrazione dell’intervista al legale nella quale ancora prima di presiedere la suddetta commissione parlamentare e avviare le indagini rivelava al cronista tale tesi preconfezionata.

A.B. - Perché cercare di ridurti al silenzio?
G.L. - I moventi per ammazzarmi potrebbero essere innumerevoli: ho tanti nemici, soprattutto istituzionali. Nel settembre 2007, dopo aver mutato rapidamente domicilio ed essermi trasferito da un capo all’altro dell’Italia, ho ricevuto una lettera anonima in cui c’era scritto: “Gianni Lannes sei morto”. Ero a Catania per una conferenza sui disastri di Sigonella (già pubblicati dal mensile “Narcomafie” e da “Left”) quando ho appreso dalla mia compagna la funerea notizia. Ho prontamente denunciato l’accaduto alla Dda, dopo essermi consultato con alcuni magistrati amici, e quindi cambiato ancora una volta repentinamente casa.

Dal settembre 2008 sono a contratto con il quotidiano “La Stampa” e dopo aver pubblicato innumerevoli inchieste di un certo spessore (basta scorrere al dettaglio l’intera annata), ho ricevuto un primo inspiegabile stop dopo aver toccato alcuni interessi del governo italiano in Egitto, della Barilla (vedi inchiesta dell’11 ottobre 2008), controllata in parte dalla famiglia elvetica Anda, e di noti trafficanti bellici, sono stato congelato. A tale proposito è inquietante l’aver concordato con questo giornale inchieste mai pubblicate: una di queste riguarda il presidente del Senato Schifani. Il cittadino onorario di Corleone ha sponsorizzato in Sicilia, una superstrada inutile e deleteria - già bloccata alcuni anni fa - che farà scempio del bosco della Ficuzza.

A dicembre dello scorso anno, quando era in fase di pubblicazione il reportage, il suo segretario personale mi ha invitato alla ‘festa del ventaglio’ al Senato. Ci sono andato come un pesce fuor d’acqua alla presenza di tanti illustri colleghi che bivaccano comodamente in Parlamento a stagioni alterne. Schifani ha voluto conoscermi, stringermi la mano e chiedermi conto in particolare di questo mio interessamento. Fatto sta che dopo una successiva visita lampo alla redazione del quotidiano torinese (febbraio 2009) quel lavoro come altri concordati non è mai uscito. ‘Dulcis in fundo’: l’allora direttore Giulio Anselmi, col quale avevo già lavorato al settimanale “L’Espresso”, è stato allontanato con una promozione all’Ansa.

A.B. - Leggendo ciò di cui ti stai occupando adesso e di cui ti sei occupato in passato, potrebbero essere varie le fonti delle intimidazioni. Tu quali ritieni siano le più probabili?
G.L. - I moventi riconducibili ai 3 attentati e alla mail intimidatoria potrebbero scaturire da mie inchieste pregresse. Mi sono occupato di traffico di armi a livello planetario e sfruttamento di risorse naturali in Africa (Congo: coltan). E ancora: per conto dei settimanali “L’Espresso” e “Panorama” ho pubblicato inchieste sulla Somalia (sequestri di pescherecci oceanici). Ho seguito le guerre in Jugoslavia e il martirio dei profughi. Ho raccontato in diretta la strage della nave albanese “Kater I Rades” affondata da nave Sibilla della Marina militare italiana, nonostante il carico umano. Ho descritto per anni le rotte e gli intrecci affaristici dei trafficanti di esseri umani nel Mediterraneo. Soprattutto mi sono occupato di ecomafie.

Più recentemente, dopo aver dato vita al giornale online “Italia Terra Nostra”, ho accentrato l’attenzione della mia testata su un fenomeno singolare che ha investito la provincia di Foggia: ben 54 impianti industriali (dai 50 ai 120 milioni di euro a progetto che intercetteranno finanziamenti pubblici) saranno costruiti per produrre energia ‘rinnovabile’. In teoria niente di strano, ma a ben guardare si tratta di progetti mascherati, ovvero fasulli. E’ impossibile proporre in Italia la realizzazione di inceneritori di rifiuti senza suscitare la doverosa protesta dei cittadini, conseguenzialmente il ‘cavallo di troia’ per penetrare nel territorio è la centrale a biomasse di varia potenza termica e natura elettrica.

A.B. - Che bisogno ci sarebbe di questi impianti?
G.L. - La Puglia - dati ufficiali alla mano - vanta un surplus energetico del 48 percento, dunque non ha bisogno di produrre altra energia, anzi non riesce a distribuire efficacemente neanche quella attualmente prodotta a causa della vetustà delle reti: 54 impianti di tale natura (eludendo ‘Via’ e ‘Vas’ - risultano concentrati in un unico territorio che vive prevalentemente di agricoltura e turismo. Vuol dire una sola cosa: nei piani alti del potere hanno deciso che questo angolo del Mezzogiorno sarà trasformato in breve tempo in un inferno industriale.

Ecco alcuni esempi a portata di binocolo: il cosiddetto ‘termovalorizzatore’ che il presidente di Confindustria Emma Marcegaglia intende costruire - con denaro pubblico - nella più pregiata area agricola dell’intera Puglia, ovvero Borgo Tressanti (1000 anime di contadini indifesi) senza una rigorosa valutazione di impatto ambientale e valutazione ambientale strategica, come impongono le normative in materia, calpestando la volontà popolare e il semplice buon senso; oppure il termovalorizzatore delle società Enterra di Bergamo e Stilo a Borgo Eridania (a metà strada tra San Severo e Foggia), a 30 metri dalle case di numerosi bambini e anziani; oppure a Carapelle, dove la Caviro di Faenza erigerà un’altra ‘centrale a biomasse’ a 500 metri dal paese, contro la volontà popolare già espressa al presidente Vendola, le leggi di protezione sanitaria.

L’80 percento dei Comuni dell’antica Daunia ospiterà impianti di tal fatta, sponsorizzati da aziende del nord, sovente infiltrate dalla criminalità organizzata. Ecco un altro documentato riferimento, ovvero il cementificio (una sorta di megainceneritore a cielo aperto e senza controlli) osteggiato dalla popolazione di Apricena, del gruppo veneto Grigolin (investimento pari a 100 milioni di euro).

A.B. - Dove ti sta portando tutto questo lavoro?
G.L. - Sto tentando semplicemente di mandare a monte questi piani speculativi. Il Mezzogiorno non è una colonia. L’hanno scorso, grazie alla mobilitazione popolare che ho suscitato, è stato possibile bloccare la realizzazione di una immensa discarica di rifiuti pericolosi provenienti anche dall’estero - autorizzata illegalmente, come ha poi sanzionato il Tar e il Consiglio di Stato, dalla provincia allora a guida del centro-sinistra col beneplacito della regione - che il patron dell’Agecos Spa (con impianti in Romania, Puglia, Basilicata e Sicilia), tale Rocco Bonassisa (poi arrestato il 4 giugno 2008), stava realizzando, addirittura sulle condutture idriche e i pozzi dell’acquedotto pugliese.

A.B. - Due episodi non fanno statistica, ma almeno esperienza. Qual è stata la risposta delle forze dell’ordine e della magistratura di fronte agli avvertimenti di cui sei oggetto? Ti verrà assegnata una scorta?
G.L. - Quando si finisce nel mirino delle mafie istituzionali vuol dire che attraverso l’approfondimento giornalistico si stanno intaccando interessi economici notevoli e sedimentati sul territorio, punti di contatto tra la criminalità organizzata, pezzi delle istituzioni e della politica. Le mafie dai colletti inamidati in odore di massoneria deviata non scherzano. Il prefetto di Foggia Nunziante il 6 novembre ha detto testualmente all’europarlamentare Sonia Alfano che “la scorta non mi serve”. Insomma, devono ammazzarmi affinché poi qualcuno possa retoricamente strapparsi i capelli.

Comunque, a filo di memoria, rammento che il marcio è allocato proprio in prefettura. Prove alla mano, basta rileggersi quanto ho scritto e pubblicato nel settembre 2007 sul mensile “Narcomafie” di don Luigi Ciotti, a proposito di tale Michele Di Bari, intoccabile ed eterno vice prefetto. In quella specifica inchiesta giornalistica è spiegato proprio tutto. Ecco perché non intendono proteggermi. Francamente non so a che punto sia l’indagine dell’autorità giudiziaria sugli attentati che ho subìto. Forse è in alto mare o magari è a buon punto. A me non hanno comunicato nulla e nessuno si è fatto vivo, se non un onesto e qualificato ufficiale dei carabinieri, il quale mi ha riferito che il mio caso è in fase di valutazione in merito a un’eventuale protezione.

Non ci tengo a fare una vita blindata. Amo muovermi liberamente e poi chi parlerebbe con un investigativo del mio calibro accompagnato dalla scorta? Il nodo cruciale è probabilmente un altro: abbiamo smarrito il buon senso. Al di là del mio caso personale vi sembra normale che interi territori della penisola non siano più controllati dallo Stato? È pacifico che cittadini, magistrati, esponenti delle forze dell’ordine, giornalisti e chiunque faccia quotidianamente il suo dovere debba rischiare la vita? In Italia vi è ancora uno Stato di diritto?

A tutti è noto il caso di Luigi De Magistris, un integerrimo magistrato costretto a gettare alle ortiche la toga perché i poteri forti in seno allo Stato gli hanno impedito concretamente di seguitare a svolgere il suo prezioso lavoro. E la gogna mediatica, ma non solo, a cui è stato sottoposto Gioacchino Genchi, già valido collaboratore di Giovanni Falcone, appartiene già al passato remoto di un Paese allo sbando sociale e politico? E il defenestramento dal “Corriere della Sera” di Carlo Vulpio solo perché ha toccato nervi scoperti, come lo spieghiamo?
A.B. - Quale invece la reazione dei colleghi, degli altri giornalisti? E delle tue fonti, delle persone con cui sei in contatto per scrivere le tue storie?
G.L. - A parte gli amici, soltanto i colleghi del TG 3 nazionale della Rai hanno realizzato un servizio sulla mia vicenda. Tanti altri pennivendoli hanno preferito il silenzio assordante. Per fortuna, le mie fonti informative non si lasciano intimidire. Col tempo mi sono conquistato fiducia e credibilità professionale in Italia e soprattutto all’estero: i colleghi di “Der Spiegel” - il più importante settimanale d’inchiesta attualmente operativo in Europa - e gli amici di “Liberation” sono sconcertati dalla disattenzione della categoria.

A.B. - Nella provincia, lontano dai riflettori dei media nazionali, capita spesso che i cronisti siano oggetto di intimidazioni? Di recente si è parlato del caso di “Calabria Ora” e del suo direttore, Paolo Pollichieni, oppure di Pino Maniaci e di Telejato. L’impressione però è che emerga solo una minima parte della pressione a cui sono sottoposti i giornalisti che lavorano alla periferia dell’impero. È corretto?
G.L. - Esistono numerosi bravi colleghi assolutamente non famosi che solcano le periferie del Belpaese in assoluta solitudine. Praticano sul campo questo nobile mestiere e spesso lavorano senza guadagnare granché, anzi ci rimettono, come tanti free-lance, i più sfruttati in assoluto. Non ho mai sentito né visto l’ordine professionale prendere posizione. Solo a scrutare la Sicilia potrei citare il caso di Gabriele Orioles e Graziella Proto, oppure Federico Orlando o Dino Paternostro e Lirio Abbate. A qualcuno hanno bruciato l’auto. Ad altri hanno fatto una telefonata. Alcuni sono stati selvaggiamente picchiati o minacciati a mano armata. In questi ultimi 5 anni i segnali di insofferenza nei confronti di cronisti impavidi o ficcanaso ce ne sono tanti, troppi.

A.B. - Al di là dei temi che stai seguendo tu e delle conseguenze che subisci, quali sono al momento secondo te i temi che la stampa nazionale dovrebbe trattare e invece non racconta?
G.L. - L’agenda dei massmedia in Italia è dettata attualmente in massima parte dai potentati finanziari che influenzano anche la politica e siedono nei consigli d’amministrazione editoriale, non solo direttamente nelle redazioni che contano. Il conflitto di interessi del presidente Berlusconi è certo eclatante, ma dov’era l’opposizione quando l’unto del signore ha assemblato in un baleno un partito di sudditi a suo uso e consumo e si è candidato?

La carta stampata, quando non è imbottita miseramente di pubblicità, è fotocopia indecente di pseudo narrazioni. La tv è anche peggio. I giornali italiani arrivano sempre ridicolmente in ritardo, sempre a fatti compiuti, a rimorchio degli eventi. Indosso gli abiti del lettore medio (su dieci cittadini, uno soltanto legge i quotidiani): ci fanno assistere solo all’ultimo atto della tragedia, e l’eccitazione si spegne presto, in attesa della prossima catastrofe ventura. Altro che specchio della realtà come dovrebbero essere gli organi di informazione. Ogni giorno va in onda e in pagina la disinformazione, con qualche modesta eccezione.

Quello che preme, a cui dedicare pagine e pagine, è il chiacchiericcio politico, la cronaca del palazzo per lo più basata sul nulla. I giornalisti dovrebbero tornare a calcare il territorio, ad ingoiare polvere come facciamo noi free-lance, tanto per cominciare. Non si può lavorare comodamente dietro una scrivania e cucinare pezzi copia e incolla. E’ ridicolo, oltreché vergognoso. E poi lo sfruttamento dei giovani pagati in nero, quando sono fortunati e magari dopo tre mesi, con compensi da fame. Dove sono i sindacati e la casta dell’Ordine?

Ecco un altro esempio documentato. Ad aprile sono stato tra i primi a raggiungere nel cuore della notte l’Abruzzo martoriato dal terremoto. Per una settimana ne ho scritto per La Stampa. In quel frangente alcuni colleghi del Corsera mi hanno chiesto di realizzare dei servizi fotografici per corredare il loro lavoro. Così è stato. Mi sono fidato sulla parola. Risultato: il Corriere della Sera ha pubblicato le mie foto, ha omesso il mio nome e a tutt’oggi non mi ancora neppure pagato. Recentemente ho scritto al direttore De Bortoli, ma niente. A costo di essere irriso come ingenuo, provo a indicare sommariamente cosa dovrebbe finalmente capire la nostra cultura e come dovrebbe comportarsi la stampa. Serve a poco l’informazione accidentale, improvvisata e sussultoria: è necessario che la stampa dia un’informazione costante e incessante, assumendo un compito formativo, orientativo, educativo, oserei dire pedagogico dell’opinione pubblica e di stimolo fortemente critico verso politicanti e amministratori pubblici.

A.B. - Quanto c’entra l’autocensura in questo caso? Quanto la solitudine, la paura per la propria incolumità fisica e per quella delle proprie famiglie finisce con lo zittire i giornalisti?
G.L. - Nel mio caso l’autocensura non ha alcun significato. Se non fossi stato in grado di difendermi anche dalle aggressioni fisiche e perfino a mano armata non sarei ovviamente ora a discuterne, ma in un ridente camposanto o sotto forma di cenere in mare. Pesa più di tutto la solitudine, il vuoto attorno, anzi il deserto. Gli affetti delle famiglie hanno il loro peso specifico, ma non credo che il timore di ritorsioni riesca a zittire i giornalisti autentici. Un dato oggettivo: i giornalisti italiani non godono di alcun tipo di protezione, nemmeno dal rispettivo ordine professionale e meno che meno dallo Stato; eppure sono sulla carta il quinto potere.

A.B. - Perché tu non te ne stai zitto, come molti altri, non obbedisci alle regole non codificate del silenzio, tiri a campare (magari pure meglio)? Sei un eroe? Saviano diceva davanti alla telecamera di Carlo Lucarelli parlando dei casalesi: “Sì, ce l’ho con loro, è un fatto personale. Hanno avvelenato e offeso la mia gente. E sì, scrivo per rancore, perché così facendo vogliono rovinare anche la mia vita rovinando quella della mia terra”. Qualcosa del genere la pensi anche tu?
G.L. – E’ impossibile mettermi a tacere. Basterebbe scorrere il dna della mia famiglia. Sono nato in Italia, ma la mia discendenza è francese. Un mio antenato, Jean Lannes, di umili origini, si è guadagnato i galloni sul campo combattendo al fianco di Napoleone. Il generale Lannes è sepolto al Pantheon accanto a Voltaire e Rousseau, tra i grandi di Francia. Gli amici d’Oltralpe mi hanno offerto ospitalità e protezione, ma io resto nel Gargano dove sono nato e non mi trasferirò in Corsica o nel boulevard Lannes di Parigi, dove sarebbe agevole vivere e lavorare alla luce del sole. Sono un uomo che non si piega ai compromessi.

L’anno scorso ho fatto arrestare un ras delle ecomafie (Rocco Bonassisa) che aveva tentato di comprare il mio silenzio con 600mila euro e la testa di alcuni politicanti corrotti. L’ho denunciato e fatto incastrare dalla Guardia di Finanza. Sono abituato a combattere in prima linea. Nel 1993 da solo ho bloccato la realizzazione di una superstrada che avrebbe massacrato il promontorio garganico.

Non sono un eroe e non temo la morte. Tante volte, soprattutto durante l’assedio di Sarajevo, l’ho sfiorata. Ho vissuto sotto i miei occhi carneficine di esseri umani e habitat naturali. Ho paura, certo non sono un automa, ma solo dell’incomprensione umana in questo tempo del disamore. Scrivo per passione, per amore della verità, anche se l’obiettività è solo un mito a cui tendiamo. Appartengo a una specie in via di estinzione. In Italia non esistono più editori puri e non si investe realmente in questo tipo di attività, soprattutto per i conflitti di interesse dei padroni del vapore.

A.B. - Continuerai a fare il tuo lavoro? Sei sempre dell’idea che ne valga la pena?
G.L. - Sono innamorato del giornalismo: ho fatto tanta gavetta, mai raccomandato, anzi. Faccio fatica a far quadrare i bilanci economici perché pagano dopo mesi, eppure non saprei rinunciare a questa vita professionale. Non mollerò mai. Se pensano di intimidirmi così, perdono tempo. Possono soltanto ammazzarmi. Devono però colpire solo me, magari al cuore e lasciare in pace la mia famiglia, tanto le istituzioni rimangono assenti e silenti. Allora: su la testa.

Antonella Beccaria

 antonella.beccaria.org

 

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