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07/10/2009

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I TRENI DELLA FELICITA

Clicca per Ingrandire “Pane e lavoro” chiedono, da sempre, i braccianti d’ogni tempo e d’ogni angolo del mondo. Perché col pane si sopravvive, ma è col lavoro che si riesce a vivere con dignità e con onestà. Pane e lavoro chiedevano a San Severo, nel Tavoliere delle Puglie, anche i padri dei bambini protagonisti di questa bella storia nazionale. Nello slancio rivendicativo, di una tiepida mattina di marzo del 1950, esasperati dalla fame e dall’umiliante elemosina quotidiana di un ingaggio sia pure ad ore. Una pagina di solidarietà senza confini, nata dalla spontanea disponibilità di donne e madri dell’Italia del Nord verso altre donne e altre madri del Sud più lontano. Famiglie falcidiate dalle miserevoli condizioni di estrema povertà, verso le quali partì un altro ammirevole slancio solidale, questa volta teso ai loro figli. Bambini senza futuro né igiene, malnutriti, fisicamente gracili, che per la prima volta rivolgevano lo sguardo al Nord, spaesati e con gli occhi colmi di terrore.

A San Severo, furono in 70 a rimanere orfani improvvisi dopo le drammatiche conseguenze di una sorta di sciopero non autorizzato, trasformatosi in tragedia con l’arresto di 180 manifestanti (uomini e donne), l’uccisione di uno di loro (Michele Di Nunzio, 33 anni) e l’arrivo dell’esercito con i carri armati a occupare la città. Un’operazione tutta al femminile, maturata tra le famiglie di ex partigiani, nella rete dei Comitati di solidarietà democratica, che dal 1946 al 1952 decisero di accogliere nelle loro case di Ancona, Ravenna, Follonica, Voltana e tante altre città delle Marche e dell’Emilia Romagna, una moltitudine di bambini sfortunati, provenienti da un Sud davvero malridotto.

Li chiamavano “I treni della felicità”, in verità trasportavano disperazione, lacrime e diffidenza. La felicità sarebbe arrivata più tardi, con lo sciogliersi delle paure al calore di affetti inaspettati, sorprendenti e sconosciuti. Una forma di adozione temporanea, che fece scoprire a quei ragazzi un’altra Italia. Quella dove si mangiava tre volte al giorno, dove il gelato non era di ricotta e le scarpe non bisognava più nasconderle di notte sotto il cuscino.

Come rotaie lucide e senza fine, su cui viaggiano i ricordi e i messaggeri di ogni memoria, ce lo raccontano in parallelo l’antropologo Giovanni Rinaldi e il regista Alessandro Piva. Avendo percorso insieme il tratto finale di una ricerca, iniziata dallo stesso Rinaldi già negli anni Settanta. Il primo con un libro: “I treni della felicità – Storie di bambini in viaggio tra due Italie” (Ediesse 2009, pp.200, euro 10), con prefazione di Miriam Mafai. Il secondo con il documentario: “Pasta nera”. Il libro (auspicabile un progetto per farne lettura di storia patria nelle scuole di primo e secondo grado) e il filmato riconciliano con un sentire comune politico, messo a dura prova dagli eventi e dalle vicende di questi ultimi mesi. Le testimonianze raccolte dai sopravvissuti, gran parte ritornati nel tempo alle famiglie d’origine, ma in tanti rimasti nelle famiglie d’accoglienza, restano di grande impatto emotivo. Dando corpo a una trama narrativa di marcato stampo realistico.

Su tutte la storia di Rosanna, che dalla Ciociaria arriva con i fratelli Diego e Vincenzo a Faenza, per raggiungere Renzo e Lorica: la sua nuova famiglia a Voltana. Le farà da madre Lorica, che come tante altre aveva deciso di colmare il vuoto della morte di genitori e fratelli, per mano fascista, con l’ospitale vitalità di una bambina bisognosa d’aiuto. Rosanna vi rimarrà a lungo, proverà a tornare a casa, ma il nuovo legame alla fine avrà la meglio. Due foto si fanno sintesi davanti alla macchina da presa. Quella di Rosanna all’arrivo: magra, sguardo duro e già adulto. E quella alla fine del soggiorno romagnolo: sorridente, col vestitino e una collanina appariscente. Per diventare sceneggiatura di un’Italia in dissolvenza. Quando la solidarietà tra Nord e Sud era spontanea come il sorriso dei bambini.

Antonio V. Gelormini


 Redazione

 

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