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16/05/2009

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PER UN NIENTE LA MADONNA DI VIESTE NON SI TROVA AL LOUVRE

Clicca per Ingrandire Quando il simulacro della Vergine Maria di Merino - splendida scultura lignea di scuola napoletana del Seicento, ricavata da un tronco di tiglio - lasciò mesi orsono, sotto scorta, la Cattedrale di Vieste, città della quale è Patrona, per raggiungere i laboratori di restauro (foto del titolo; ndr) della Sovrintendenza di Bari in modo da poter avviare un intervento di tipo conservativo, e farvi rientro prima dei festeggiamenti in suo onore di maggio 2009 (foto 1 sotto, il saluto del vescovo), fu la prima volta che accadde.

Fin qui tutto nella conoscenza di ciascuno, nient’altro che cronaca passata. Non vogliamo quindi raccontarvi quanto sia stato efficare il lavoro dei tecnici e quanto abbia influito sulla “bellezza” della statua, oggi ricca di nuova luce avendo riacquistato i suoi colori originari, ma semplicemente anticiparvi che sulla stessa è stato rinvenuto un sigillo napoleonico (sembra tuttavia che qualcuno sapesse già della sua esistenza, sicuramente frutto di una prima ispezione condotta per valutare lo stato di conservazione del simulacro).

La domanda che a questo punto affiora spontanea è: perché la presenza di tale sigillo e quale la sua funzione. Ebbene, apporre il proprio “marchio”, sulle opere d’arte in particolar modo, da parte del Grande Corso aveva un solo significato: i suoi “esperti” avevano messo gli occhi sull’opera e col sigillo attestavano il diritto di proprietà su di essa. Nel contempo, il “dovere” degli addetti a portarla via, di sicuro insieme a tante altre destinate a prendere la strada per Parigi. A dimostrazione delle “ruberie” perpetrate dal Bonaparte, rivisitiamo quanto ebbe a scrivere Maria Antonietta Macciocchi su Corsera nel bicentenario della campagna d’Italia.

“Per celebrare le vittorie del generale in Italia, i parigini assistettero alla sfilata più sbalorditiva di cui si abbia memoria. Come trofei di guerra non sfilavano gli eserciti battuti o i soldati delle potenze sconfitte, i vinti in catene, né i cannoni e i mortai conquistati al nemico, bensì opere d'arte sublimi, frutto della razzia, che con una campagna militare fulminea e geniale Napoleone riportava in Francia, a risarcimento del salasso della guerra, secondo l'ordine impartitogli dal Direttorio. Una folla tanto attonita quanto sterminata, si era ritrovata nelle strade per ammirare capolavori in marcia. Il corteo partiva dal quartiere di Austerlitz, a est di Parigi, e avanzava per chilometri, sboccando sul Campo di Marte, luogo consacrato delle feste rivoluzionarie. Durò due giorni, il 27 e il 28 luglio 1798.

“Alla sua testa avanzavano su grandi carriaggi le due enormi statue del Nilo e del Tevere, rubate al Vaticano, seguite dai quattro cavalli di bronzo di San Marco (Venezia; ndr), non imballati, cosicché quei superbi destrieri sembravano come impennarsi sulla folla, trainati com'erano da alte piattaforme con rulli girevoli e ruote. Seguivano altri trofei. La "Trasfigurazione" di Raffaello, la "Madonna della vittoria" di Andrea Mantegna, la "Crocefissione di S. Pietro" di Guido Reni, "Le nozze di Cana" del Veronese, e le antiche statue greche e romane provenienti da Napoli e da Pompei”.

Fin qui la Macciocchi, noi aggiungiamo che con la seconda “calata” in Italia, i Francesi addobbarono un’intera ala del Louvre! Ecco dunque il significato del sigillo napoleonico sull’opera d’arte che oggi, per mera fortuna, i Viestani e tutti i fedeli possono ancora ammirare e venerare. Infatti, “l’operazione” non andò a buon fine per alcune “avversità politiche”.

Ma non finisce qui, perché quanto stiamo riportando è giusto un “assaggio”. A breve saremo in grado di informare i nostri lettori - e in modo particolareggiato - sui vari “come”, “quando” e “perché” che certamente vengono in mente leggendo questa (ri)scoperta del “brand Napoleone” sulla splendida statua di Santa Maria di Merino.

Gabriele Draicchio

 Redazione

 

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