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11/03/2009

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INFORTUNIO “IN ITINERE”

Clicca per Ingrandire Il problema dell’indennizzabilità dell’infortunio “in itinere”, vale a dire quello che si verifichi quando il lavoratore si trovi sui percorsi che compie nell’andare al lavoro o per tornare da esso, implica che si debba tener conto della circostanza che tali infortuni avvengono normalmente fuori della sfera d’influenza e di controllo del datore di lavoro, nonché della loro imprevedibilità, in relazione al determinismo altrimenti valutabile delle singole lavorazioni.

Ciò poteva dar luogo a una completa esclusione di ogni risarcibilità. Tuttavia, man mano, seguendo la tendenza dell’ordinamento verso la protezione del cittadino e del lavoratore in particolare, specie in relazione agli eventi lesivi della capacità di lavoro (poi evidenziata in via generale dall’art. 38 della Costituzione), si sono delineate alcune soluzioni in via interpretativa che, pur non senza contrasti in un largo e diffuso dibattito, utilizzando e dilatando entro certi limiti concettuali la nozione di “occasione di lavoro”, hanno permesso di elaborare un paradigma nel quale si è riusciti a ricomprendere alcune ipotesi tipiche.

Nel nostro ordinamento previdenziale il rischio dell’iter compiuto dal lavoratore per recarsi nel luogo di lavoro o per farne ritorno non ha costituito oggetto di specifica tutela fino alla recente normativa, di cui all’art. 12 del D.L. n. 38/2000, se si eccettua un’ipotesi particolare concernente il lavoro marittimo (art.6 del Testo unico 30 giugno 1965 n. 1124).

Le ragioni di questa lunga carenza normativa vanno ricercate non soltanto in difficoltà di carattere finanziario, ma anche in un certo equilibrio tra gli argomenti che possono essere addotti in favore e contro l’adozione di un sistema di tutela dei lavoratori contro il rischio dell’iter in collegamento con l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro.

Da un lato si può rilevare che lo sviluppo della motorizzazione ha fatto dei sinistri stradali un vero e proprio rischio sociale, vale a dire un’eventualità pregiudizievole per le condizioni di esistenza e di progresso della società, e quindi tale da giustificare un intervento pubblico articolato in relazione alle diverse fasi di realizzazione del rischio e al contenuto di questo, che non si esaurisce nel danno economico, ma comprende anche l’aspetto umano e sociale.

Un livello di tutela adeguata alla concezione della sicurezza sociale dovrebbe comprendere pertanto, da un lato la prevenzione, la cura e la riabilitazione, e dall’altro la garanzia dei mezzi di esistenza, mediante un reddito di sostituzione o una erogazione assistenziale, oltre a specifici interventi con carattere integrativo finalizzati al recupero sociale degli infortunati.

Rispetto a un’esigenza siffatta di protezione integrale, si rivela inadeguata l’assicurazione obbligatoria contro la responsabilità civile per uso di veicoli a motore e di natanti istituita in attuazione, per la verità piuttosto tardiva, della Convenzione di Strasburgo del 1959, non soltanto per il permanere di un’impostazione privatistica in ordine alla costituzione e al contenuto del rapporto assicurativo,ma soprattutto perché essa non tutela direttamente il rischio del danno, bensì quello della responsabilità civile, la quale nella normativa vigente in materia di circolazione stradale (art. 2054 cod. civ.) ha ancora un fondamento soggettivo, configurandosi soltanto in presenza di una colpa, sia pur lievissima, del conducente del veicolo.

Sussistono, inoltre, particolari motivazioni per la realizzazione della tutela del rischio dell’iter connesso allo svolgimento di un’attività lavorativa nell’ambito della gestione previdenziale concernente i rischi professionali.

Arcangelo Palumbo




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