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20/02/2009

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IO CONTINUO A GIOCARE A MOSCA CIECA CON FILIPPO FIORENTINO

Clicca per Ingrandire “Il Gargano di Filippo Fiorentino: un sogno interrotto?” Il suo, sì… forse! Il nostro, quello di chi lo ha conosciuto, apprezzato, stimato, amato, sotto certi aspetti idolatrato, no! Se ci chiamassero a parlare di lui esordiremmo con le parole: “Filippo Fiorentino, l’ho sentito per la prima volta…” e qui ci fermeremmo. E’ talmente incistato nella nostra memoria che non sapremmo dire quando ci siamo sentiti con lui la prima volta, quando sia avvenuto il primo contatto. La spiegazione è semplice: Filippo Fiorentino era una di quelle creature che si accuccia nell’anima della gente e te la fa sentire una persona conosciuta da sempre. La sua amicizia poteva anche nascere in tarda età ma era come essere cresciuti con lui, averci giocato a mosca cieca dai tempi dei giochi a mosca cieca, averlo avuto accanto da una vita, come se le radici fossero state amnioticamente saldate nell’identica placenta.

Questo l’effetto che Filippo Fiorentino produceva in chi entrava in contatto con lui: lo sentivi subito vicino come se fosse stato tuo “amico” da sempre! La sua grandezza risiedeva esattamente in questa equazione parametrica. La distanza abissale che poteva esserci – e c’era! – fra lui e te scompariva (senza nascondersi) di fronte a tale abilità. Un’abilità in grado di fartela superare non col gioco delle parole, in cui era maestro, o degli argomenti trattati o della capacità di eloquio, ma con il carisma che lo avvolgeva in una inattaccabile se pur penetrabile aura.

Se, poi, insistessero nel chiederci “forza la memoria, cerca di ricordare, quando lo hai visto per la prima volta, quando è avvenuto il momento del vostro primo incontro”, allora no, sapremmo cosa rispondere. Perché quel momento è marchiato a fuoco nella mente… e ne conosciamo le ragioni. La forza di quell’incontro, l’energia scaturita da semplici argomentazioni, velati complimenti reciproci, retorica ammirazione dell’uno verso l’altro stemperata dalla sincerità delle espressioni usate, la maniera di esprimerle, senza veli, senza paratie difensive e camere stagne, aperti e bilateralmente protesi all’approvazione o disapprovazione dell’altro, nudi di fronte alla sua valutazione critica, come fratelli nati dallo stesso ventre che non hanno timore di denudarsi ancora di più, ci aggredì nella stanza della sua presidenza rodiana. Mai visti prima, solo la voce che correva lungo un cavo, inflessioni di sentimenti ancora vergini, eppure si rivelò un incontro di anime che sembravano non essersi mai perse di vista.

Arrogantemente, senza il timore d’essere tacciati di approfittare di una memoria per salire sul carro del vincitore (perché davanti a un vincitore, di tutto fuorché della morte fisiologica, ci troviamo), osiamo affermare che il nostro rapporto con Filippo Fiorentino fu “unico”. Potevamo non sentirci per mesi, ed è capitato, e alla prima occasione lui era lì, pronto ad ascoltarti, a “servirti” (e non riveliamo cosa arrivammo a chiedergli per non sentirci più meschini di quanto all’epoca ci sentimmo!), ad approfondire il problema faccia a faccia, stendere prefazioni per te, aiutarti, consigliarti, riprenderti, farti tornare coi piedi per terra, a… giocare a mosca cieca con te.

Altro giro, altra corsa, altro incontro: casa sua, la casa di Rodi, a un passo dal mare sciabordante nelle orecchie a masturbarti il cervello, lavarti i pensieri, in un pomeriggio invernale, il gelido grecale a fondersi con le emozioni di una richiesta già accettata, ancora prima di avanzarla. E la sua umiltà, sfoderata con la schiettezza che fa grande i “grandi”, scevra di quelle frange d'imbarazzi pronte a ghermirti nel valutare di essere lì lì per offendere qualcuno, perché sai che non lo offenderesti mai, perché sai che lui sa e non si offenderà.

Altra corsa, altro giro (andiamo a braccio, saltando occasioni intermedie, rare ma non sporadiche e sempre pregnanti, didascaliche). Rodi, tavola rotonda del “Rosone”, altro ricordo che a lui si accompagna in una memoria esiziale. Relatore lui, relatori noi. E nella sua relazione sul tema infila noi, ci nomina, ci esalta, esorta tutti a renderci partecipi di una terra che non ci appartiene ma noi apparteniamo ad essa. Che c’entriamo noi! Ma lui avverte forte il bisogno di coinvolgerci, perché il rapporto è di stima, rispetto, conoscenza profonda… affetto, l’affetto che con spontanea naturalezza può germinare fra due uomini accomunati dalla medesima Amante: la Cultura!

Altro giro, altra corsa… No, basta così.

Basta così!

Scriviamo e abbiamo di fianco i suoi volumi, qualcuno edito dal “Rosone” (leggi il titolo in apertura) per lo strenuo impegno di una "certa" Falina Marasca, degna erede di un altrettanto degno Uomo, il marito Franco, “unforgetable”. L’intenzione, sedendoci al pc, era di farne un excursus letterario per commemorarne l’anniversario della scomparsa, e invece le dita scorrono sulla consolle seguendo il lavico filo incandescente di sinapsi fibrillanti e sconclusionate che partendo da un nebuloso momento di primissima conoscenza si sono andate dipanando nel tempo degli afflati comuni, delle idee compartecipate nel silenzio delle labbra che non avevano bisogno di schiudersi, del cuore che batteva all’unisono nel tentativo di perpetuare un sogno e non permettere che si dicesse “interrotto”.

Lui immerso nel profumo delle garganiche zagare, avvolto da ventilate raggelanti, sostenuto dall’affetto dei suoi alunni; e noi naufraghi negli impegni redazionali baresi, intrisi dell’odore delle rotative, storditi dal mestiere più affascinante del mondo, ormai dimentichi dei nostri alunni. Lontani e vicini, a lottare su sponde diverse e uguali, divisi dai differenti luoghi di residenza e lavoro, e accomunati negli intenti. Ecco perché bastava un richiamo a riavvicinarci, un sussurro a riprendere discorsi spezzati solo dallo spazio temporale e mai sospesi. Partecipi l’uno delle difficoltà dell’altro a chilometri di distanza, senza parlare, muti nel più fragoroso dei silenzi.

“Cercavo ansiosamente, quasi spasmodicamente un termine per chiudere la prefazione del tuo libro, in cui hai voluto impegnarmi, informandolo al tuo status professionale. Ebbene, l'ho trovato!" (Il vocabolo era cifra, per la cronaca.) La goliardica semplicità di questa frase pronunciata con la leggerezza dell’essere racchiude la possanza di un uomo che sarebbe dovuto appartenere di diritto alla schiera di coloro che non dovrebbero morire mai. La nostra paradossale, ma fino a un certo punto, incapacità a ricercare oggi un termine per chiudere questo discorso, questa memoria, denuncia la galattica differenza tra noi e lui. Tutta a nostro sfavore!

piero giannini

 Redazione

 

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  Commenti dei Lettori:

-- 21/02/2009 -- 23:18:03 -- Fiorenzo

Galattica differenza........scomparso LUI,scomparsa la speranza?

 
Dx
 

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