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24/09/2008

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IL LAGER DI MANFREDONIA

Clicca per Ingrandire  Prima dell'entrata in guerra (10 giugno 1940), il governo italiano emanò provvedimenti per preparare la popolazione, tipo oscuramento o stretta vigilanza in appositi campi di concentramento per gli “ostili al regime”. L'elenco ufficiale del Ministero dell'Interno consultato da Viviano Iazzetti, il ricercatore che ci accompagna in questo viaggio nelle memorie rimosse e dimenticate, conta una quarantina di questi campi, tutti nell'Italia centro-meridionale. In Puglia furono 4: Alberobello, Gioia del Colle, Isole Tremiti e Manfredonia, che cominciò a funzionare il 16 giugno 1940 e nel ’43 tornò a essere il macello comunale della città. Al tempo era nuovo di zecca e piuttosto grande. Per adeguarlo a campo di concentramento furono effettuati lavori, ricavati camerini, scavate fogne, attrezzate docce e cucine, e recintato perché dava quasi sulla strada. È inquietante, nella piantina topografica, la dicitura "forno crematorio" che contrassegna uno dei vani. La mente corre subito ai famigerati lager nazisti.

Ma Viviano Iazzetti smorza le facili deduzioni: “Forni crematori sono presenti in tutti i macelli comunali. I documenti da me rinvenuti in Archivio non autorizzano paragoni coi lager tedeschi e polacchi. Il campo di Manfredonia fu, più che altro, un campo d’internamento: in tre anni vi passarono 519 persone e non raggiunse mai il limite massimo di capienza: 300 unità. Fu una cosa all'italiana - continua, - un posto in cui la gente veniva sorvegliata, custodita, e non servì certo ad ammazzare persone. Dai documenti ufficiali, sia delle ispezioni sia della visita del Nunzio Apostolico di Napoli, pare che le cose a Manfredonia andassero bene. L'unica restrizione di rilievo era la chiusura dei camerini, la sera. 'Lucchettavano' finestre e porte. Per il resto non ho riscontrato anomalie.

“Ci fu qualche fuga, pur con due gruppi di guardia (8 poliziotti e 8 carabinieri), ma il campo era proprio sulla strada, la ferrovia distava soltanto 150 metri. C'erano le solite restrizioni sulla corrispondenza, che veniva letta e censurata. Per gli internati di lingua tedesca era il professor Aurelio Volpe a praticare la traduzione e ci furono difficoltà quando morì. Invece le lettere degli slavi venivano inviate a una traduttrice, al campo di Fabriano: la posta veniva censurata lì. Non si potevano leggere libri, se non su autorizzazione, ma sappiamo che erano forniti in una certa quantità dall'arcivescovo Cesarano. Anche i giornali erano filtrati. Per il resto era un campo piuttosto alla buona, tranquillo.

“Gli internati avevano la possibilità di realizzare orticelli - racconta Iazzetti. - C'era anche un campo di bocce. Chi aveva qualche risparmio, poteva depositarlo in un libretto al portatore del locale Banco di Napoli. In genere erano sussidiati dallo Stato, ricevevano un contributo. Con quei soldi acquistavano gli alimenti che si cucinavano da soli. Tutti si adattavano. Solo i benestanti avevano un vivandiere. Era possibile una doccia ogni dieci giorni, a turno. La pulizia del campo era affidata a loro che, in pratica, lo autogestivano. Due medici di Manfredonia a pagamento prestavano servizio a mesi alterni, un cappellano diceva messa la domenica. Vietato giocare a carte. C’erano alcune limitazioni d'orario, ma gli internati potevano ricevere visite: quando arrivavano i parenti da lontano, potevano soggiornare in paese, con loro. Qualcuno fu autorizzato a prestare la propria attività: ci fu chi fece il barbiere e chi l'infermiere. Quando venne il Nunzio Apostolico alcuni chiesero di poter lavorare. Così, braccianti e contadini furono trasferiti a Pisticci, in un campo agricolo, e un gruppo di muratori e imbianchini andò a Fara Sabina.

“Il 1 luglio 1940 giunsero al campo 31 ebrei tedeschi che, per la maggior parte, furono trasferiti quasi subito (il 18 settembre) nel campo di Tossicia, vicino Teramo. A Manfredonia ne restarono solo cinque, fino al febbraio del ’42, quando furono trasferiti a Campagna, in provincia di Salerno. Oltre a ebrei tedeschi, comunisti, socialisti, sovversivi in genere e anarchici, di varia estrazione sociale e provenienti dalle regioni del centro Nord (in particolare Toscana), gli internati più numerosi furono i cosiddetti 'ex iugoslavi', provenienti dall'Istria e da Fiume. Questi ‘slavofili’ – conclude Iazzetti, - prelevati dai luoghi di origine, furono tenuti congelati qui a evitare che commettessero attentati o sobillassero la popolazione contro lo Stato italiano. Gli slavi nutrivano forti sentimenti anti-italiani, essendo stati i loro territori annessi all'Italia”.

Ma perché proprio Manfredonia? In Italia, nella primavera del ’40, si cercarono luoghi “idonei” a realizzare campi di concentramento. Anche in provincia di Foggia ci furono alcune ispezioni. Si vagliò dove stabilire un secondo campo, oltre quello già attivo delle Isole Tremiti. A Manfredonia s’individuarono due possibili ubicazioni: “Villa Rosa”, località Scaloria, per 160 persone, e il “Macello” comunale appena ultimato, che con opportune modifiche poteva ospitare 300 persone. Fu anche ipotizzato l'utilizzo di un convento di Sannicandro Garganico, di proprietà comunale, che poteva contenere 150-180 unità.

Un'ulteriore inchiesta fu effettuata per vedere dove si potessero collocare altre “persone pericolose”. Da un rapporto di polizia risultarono le seguenti disponibilità: 2 posti a Casalnuovo Monterotaro, 20 a Castelnuovo della Daunia, 3 a Celenza Valfortore, 4 a Pietra Montecorvino, 2 a Rocchetta Sant'Antonio, 5 a Roseto Valfortore, 4 a Volturara Appula, 5 a San Marco La Catola. La scelta definitiva cadde su Manfredonia, soprattutto perché la città era ben collegata via mare con Tremiti. Il Comune non voleva che il suo “macello" fosse utilizzato come campo di concentramento, ma l'Amministrazione dello Stato impose d'autorità la nuova destinazione d'uso, lasciando al Comune solo la possibilità di decidere l'entità dell'affitto.

Teresa Maria Rauzino

 Redazione (foto del Corriere del Golfo)

 

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