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14/07/2008

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Storia di un Tango straPaz!

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Durante l’ultimo periodo della sua vita Andrea Pazienza partecipa al gruppo di Tango, il settimanale satirico dell’Unità. A volerlo nella squadra Sergio Staino. Quando durante la riunione di redazione abbiamo pensato di dedicare un intero numero ad Andrea Pazienza sono riesplose nelle testoline le parole e i disegni di Paz. Qual è la storia più bella, il personaggio preferito? Non è semplice dirlo. Che poi “la pazienza ha un limite. Pazienza no!”

Al di là di qualsiasi merito artistico indiscutibile, Paz con le sue storie ha impresso meglio di chiunque altro uno scorcio di storia che sarebbe passata alla storia e una generazione che, la precisazione è di Tondelli, “solo sbrigativamente, solo sommariamente chiameremo quella del ´77 bolognese”. Le sue tavole sono la testimonianza diretta di una generazione che passava di là in- o consapevolmente. Il passo seguente è stato ascoltare chi con lui ha condiviso amicizia e collaborazioni professionali.

La musica è quella di Tango, altro che danza sensuale: settimanale di satira, umorismo e travolgenti passioni, legato all’Unità a cui collaborò Apaz dall’86 all’88. Fino a quella fatidica notte del 15 giugno. Il direttore di Tango era Sergio Staino, il padre di Bobo. Tra le sue mani è passata la storia della satira in Italia che oggi continua su Emme. Lo contattiamo. Il telefono squilla. Il maestro risponde con la solita, serena cordialità e disponibilità.

VIVEUR - Come iniziò l’avventura a Tango di Andrea Pazienza?
STAINO - Tango nasceva da una mia idea, che era quella di fare una rivista satirica con uno spazio messomi a disposizione da l’Unità. Dal punto di vista organizzativo, veniva fuori dalle amicizie che avevo stretto con alcuni personaggi creativi che orbitavano attorno al club Tenco. Il Tenco infatti non era solo l’alternativa alla solita canzonetta del Festival nazionale, ma il motore propulsore di un fermento culturale innovativo, di avanguardia che all’impegno della canzone d’autore legava la vivacità del fumetto. Fino ad allora, fumetto e canzone d’autore erano le cenerentole della cultura canonica, ufficiale, insomma quella con la c maiuscola, in realtà divennero i linguaggi principi della poesia di quello scorcio di Novecento. Tra quei personaggi c’erano Manara, Mollica, Michele Serra e, appunto, Andrea Pazienza. Ricordo che fu uno dei primi che contattai.

V. - Appartenevate a due mondi politici differenti. Lui nel ’77 a Bologna faceva parte di quell’ala creativa del movimento che dai partiti prendeva le distanze e di cui il Male e Frigidaire furono la voce più acuta e pungente. Dica la verità: qualche scontro sulla satira c’è stato?
S. - Andrea veniva dalla Bologna studentesca del ’77, quella del movimento, di Autonomia Operaia, di Bifo, dell’esperienza di Radio Alice. Erano anni particolari, che presero anche derive tremende. L’eroina all’epoca era un po’ come il beat o il rock: una forma di sfogo, un luogo di transito nel maledettismo giovanile. Tango era un giornale satirico, all’interno de l’Unità che era un quotidiano generalista, che andava nelle mani di fasce popolari molto ampie. Non si potevano fare cose troppo forti, di rottura eccessiva o eccessivamente provocatorie come sul Male o su Frigidaire a cui i lettori erano preparati. Però tutti eravamo liberi di spaziare e non ci furono interventi di alcun tipo. L’unica limitazione che accettammo tutti era sul sesso. Pazienza, che pure proveniva dalle esperienze di satira estrema del Male, non ebbe difficoltà ma non era molto attratto dalla satira politica, non era molto interessato a rovesciare giorno per giorno il diario del palazzo. Ed era ovvio: lui era un raccontatore, un narratore. È stato il massimo poeta che ha cantato la sua generazione, come lui nessuno ha rappresentato l’inquietudine, le emozioni, le necessità degli Anni Settanta e Ottanta, col suo Pompeo, il suo Zanardi. Non vedo nel cinema, nella letteratura figure così gigantesche in grado di trascrivere su carta queste inquietudini, queste emozioni come ha saputo fare lui.

V. - Con il gruppo di Tango avete dato vita a performance irripetibili in giro per l’Italia.
S. - Quella è stata una cosa bellissima. Non ci rendevamo conto di quello che facevamo, ma erano dei capolavori itineranti. Se solo l’avessimo capito... Con la squadra di Tango incontravamo il pubblico nei teatri o alle feste dell’Unità. Io e Ellekappa disegnavamo vignette sui fatti di attualità politica, e mentre David Riondino cantava Andrea, che era di una velocità pazzesca, disegnava in presa diretta e in modo immaginifico le canzoni di Riondino. Passava così velocemente da un disegno all’altro che sembravano dei videoclip. È un peccato non aver filmato niente e non aver bloccato per sempre quell’esperienza.

V. - Cosa manca dall’88 in poi all’arte del fumetto capace di dignità letteraria?
S. - Ha disegnato tanto. Non tutto però. Aveva ancora molto altro da dire e da disegnare, anzi. A mio avviso era ancora a un livello di sperimentazione. Era capace di cambiare stile e segno non solo da una tavola all’altra, ma all’interno della stessa vignetta. Anche il linguaggio era assoluto. Però non era ancora pienamente maturo. Le storie erano brevi, a volte frammentarie. Nella sua ultima storia invece Astarte, il cane di Annibale, che non completò per la sua prematura scomparsa, c’è un afflato epico che segna l’ingresso nella piena maturità artistica, il disegno è ricco e non frammentario. Inoltre aveva la mente già rivolta al cinema, a cui si sarebbe dedicato seppure alla sua maniera. In realtà, non sapremo mai quale ricchezza abbiamo perso. Paganelli e Mollica, i suoi editori, lo convinsero a trasferirsi a Montepulciano soprattutto per levarlo dalla situazione dolorosa di Bologna e dalle incursioni nell’eroina. Il periodo del Male era finito. La partecipazione politica di Frigidaire non copriva più il bisogno di un mutato scenario politico e sociale. Paz accettò in qualche modo di cambiare vita. A Montepulciano nel 1986 gli feci regalare un fax dall’Unità per inviare i suoi disegni per Tango, e lui impazzì all’idea di poter inviare i lavori senza dover tornare in città. Poi, però... La perdita è stata incommensurabile.


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